Trovare il giusto filo conduttore per un
articolo non è un’operazione così semplice e spontanea come si
potrebbe immaginare. Specie quando si è “titolari” di una
sorta di diario tematico sul mondo Mercedes; soprattutto se – come in
questo caso – non si intende fare pura e nuda cronaca. E il compito
risulta ancor più arduo dopo un GP, quello svoltosi in terra di principi,
che ha offerto diversi spunti di riflessione di cui, con ogni
probabilità, si è già enucleato ogni tema.
Nella ricerca di una linea concettuale da
seguire l’illuminazione è giunta, come sovente accade, in maniera
casuale, aggiornando stancamente la pagina di Twitter quando
l’attività in pista era terminata da qualche ora.
L’assist è arrivato dal “battage” che
montava in relazione alle lamentele di Lewis Hamilton verso i suoi
ingegneri, rei di aver sbagliato la scelta delle gomme operata
all’undicesimo giro, quando la safety car ha fatto capolino a causa di un Charles Leclerc che inondava la pista di detriti. Quelle vituperate coperture medium che non hanno
reso al pari delle hard di Max Verstsppen e Seb Vettel.
Che il campione del mondo in carica
abbia sofferto in maniera smodata nell’arco dei 67 giri in cui ha
calzato le Pirelli a banda gialla è un fatto difficilmente
contestabile. Anche da chi è poco benevolo nei giudizi sull’anglo-caraibico.
La gara di
Lewis è stata un mix tra un supplizio emotivo – vomitato sul team
a mezzo radio – e la gestione della vettura che non
appariva la solita corazzata. Tutto svoltosi in un contesto di
fortissima pressione che prendeva le sembianze di una creatura blu
scuro. Una sagoma, quella di Max Verstappen, arrembante ed
ingombrante che saturava i retrovisori della W10 del campione britannico. Un furente Max che, parecchio
inalberato per la penalità di cinque secondi, aveva premura di
mettersi davanti per dettare il passo e provare a racimolare qualcosa
in più di un magro quarto posto.
E’ proprio del controllo della pressione,
ordunque, che intendo parlare. E non solo da parte di chi fisicamente
si trova calato in abitacolo, ma anche da parte di chi sta al muretto
box piuttosto che davanti ad un pc ad incrociare migliaia di dati
mentre una voce concitata eccepisce su ogni scelta che viene presa in
lassi temporali limitati e, pertanto, inclini alla topica. Che in
Formula Uno può essere fatale. Un po’ come avvenne – e forse da qua
derivano le paure di Hamilton – in quel GP di Monaco del 2015
letteralmente scippato, per una valutazione errata del team, al
pilota di Stevenage che stava conducendo comodamente la gara.
HAMILTON: UN APPROCCIO SCIENTIFICO PER
CALMIERARE LA PRESSIONE
Hamilton ha lavorato molto su se stesso
nell’arco della sua carriera. Da veterano della categoria (è il
secondo pilota in attività per numero di GP alle spalle
dell’immarcescibile Kimi Raikkonen) ha compreso che la gestione della
sfera emotiva è un qualcosa di non secondario al fine di conseguire
quei risultati sportivi che, puntuali, sono arrivati.
Prima di allargare il discorso al suo percorso professionale, basta osservare come ha superato le fasi critiche che si sono presentate durante il week end di
gara monegasco.
Il primo scossone a se stesso lo dà
nell’ultimo assalto della Q3 delle qualifiche. In un momento in cui
la pista era apparentemente più lenta, Lewis piazza una zampata in virtù della quale scalza Bottas dalla
favorevolissima pole che a Monaco vale più di mezza gara. E spezza
il dominio del finnico che partiva davanti a tutti da tre GP consecutivi.
In gara fa il resto: parte bene,
mantiene la calma – come sempre – durante la safety car e
gestisce con il piglio del ragioniere delle gomme destinate a durare, ad occhio e croce, la metà delle tornate. Al giro 76, quando mancano una manciata di km al termine
delle ostilità, alza il muro su Verstappen. Segnale forte: rischia
pur potendo dare strada in virtù dei cinque secondi di penalità comminati all’olandese.
Ha quindi voluto vincere
sotto la bandiera a scacchi per lanciare un segnale a quel pilota che
più di ogni altro potrebbe mettere in discussione il suo regno.
La condotta di gara tra i guard rail
del principato ha avuto anche il compito da spedire un monito a
Bottas che, pur avendo vinto due tappe, non ha mai dato la sensazione di
essere più rapido di Hamilton sul passo gara. E’ accaduto solo in
Australia quando Lewis ha lottato con un fondo danneggiato e che gli
sottraeva performance.
L’ANGELO CUSTODE
Spostare il focus della tensione sull’avversario di turno è una tecnica affinata e collaudata con
successo nelle precedenti stagioni. Soprattutto dopo aver perso il
fatidico mondiale del 2016. I due titoli conquistati nel 2017 e 2018
ai danni di Vettel lo raccontano con chiarezza. Nel modo di
comunicare e usare la stampa, nella condotta in pista, ma anche nel
cercare di instaurare un rapporto improntato a un rispetto talvolta
forzato dell’avversario, Hamilton ha creato un sistema atto a far
traballare le certezze mentali del rivale. Con successo. Si pensi alla
rimonta di Hockenheim che induce Seb a commettere un errore fatale.
Pecca dalla quale prendono le mosse una serie di continue distrazioni
che, alla fine, determineranno la sconfitta nel mondiale. Situazioni
che un tempo Hamilton subiva (si pensi alla stagione d’esordio) e che
ora riesce a sfruttare per aver la meglio su chi mette in
discussione il proprio trono.
Un Hamilton affidatosi, in quel progetto di innalzamento di una barriera psicologica, alle competenze di Angela Cullen, biondo angelo custode che lo segue in pista e
fuori.
Una gestione globale dell’agire
quotidiano per avere un controllo totale di sè. Un’alimentazione mirata ad evitare cibi che favoriscano lo stress e un ciclo del sonno da tenere quanto più lineare possibile, nonostante i tanti spostamenti frutto delle molteplici
attività del 34enne di Stevenage. Ma anche l’allenamento fisico come costante. Tutto abbinato ad un
approccio alle cose meditativo e spirituale che ha il compito di far
staccare l’uomo dal pilota, lasciando l’obiettivo, ossia la pista,
lontano dalla ciclicità giornaliera. Fattori spesso criticati dal
distratto osservatore ma che Hamilton prende molto sul serio. E che
negli anni gli hanno offerto la possibilità di approcciarsi alla
professione in maniera più razionale, pragmatica e produttiva.
MERCEDES: LA CURA DEL PARTICOLARE ALLA
BASE DEI TRIONFI Ovviamente Hamilton ha avuto bisogno di
un “brodo di coltura” nel quale far crescere e moltiplicare la
consapevolezza della sua forza. E che gli ha dato la possibilità di
poter continuare ad esprimere la sua indole che, come si diceva in
apertura, lo porta ad essere sovente troppo critico o intollerante a
certe scelte. Il controllo della frustrazione sotto pressione resta
un limite dell’uomo. Un tratto distintivo, endemico. Probabilmente
immodificabile. Che l’ambiente Mercedes riesce ad ammorbidire e controllare.
Solo due squadre, nella storia della
F1, sono riuscite a sfornate monoposto capaci di portare a casa le
prime sei gare di un mondiale: La McLaren, nel 1998, e la Mercedes.
Per ben due volte: 2014 e 2019. Una scuderia che, in soli cinque anni
e una manciata di mesi, ottiene 62 prime file in qualifica. Stesso
score di Ferrari, Williams e McLaren. Che hanno raggiunto questo dato
in decenni di partecipazioni. Dati mostruosi che fanno la tara della
forza degli anglo-tedeschi. I quali sono arrivati sul tetto del mondo
grazie alla maniacale attenzione ad ogni singolo dettaglio. E tra
questi, naturalmente, vi è la gestione del momento critico.
In Mercedes si sbaglia come in
qualsiasi altro team, ma l’incidenza media degli errori è molto più
bassa rispetto ai concorrenti.
Monaco è una sorta di riduzione in
scala di un concetto più ampio. Basta guardare la condotta
logistico-sportiva dell’intero week end del team capitanato da Toto
Wolff e raffrontarla con quella operata da Mattia Binotto.
Nelle qualifiche la
Ferrari gestisce male l’evento avverso rappresentato dall’errore di
Leclerc che rovina un set di gomme per un lungo all’altezza
dell’ingresso della pit lane. Attimi di confusione, ingegneri intenti
a leggere dati e tempi e nessuno che si cautela mandando in pista il
pilota che poteva tranquillamente mettersi al sicuro e passare in
tutta scioltezza in Q2. Evitando di attivare quell’entropica catena
di eventi che ha portato a rovinare l’intero GP casalingo.
Di contro c’è il caso Mercedes che,
sotto safety car, riesce, in un evidentemente momento di stress
decisionale, a comunicare a Valtteri Bottas di prendere spazio da
Hamilton in modo che questi possa fare il suo pit stop e consentire,
nel medesimo giro, di operare la stessa manovra al driver finnico.
Questi dettagli, queste procedure, non
sono estemporanee e frutto del caso; si tratta di manovre ben
orchestrate e che, con basso margine d’errore, danno i frutti attesi.
In
Mercedes, evidentemente, esistono dei protocolli ben definiti,
intellegibili, da applicare nei momenti di massima pressione. Per
allentarla, controllarla, limitarla.
IL MURO DEL PIANTO
E veniamo al momento che ha ispirato
questo scritto: la gestione di un pilota poco ortodosso nella
comunicazione col suo muretto. “Per Lerwis noi siamo il muro del
pianto. E’ normale per lui, ne siamo consapevoli“. Queste le
parole rilasciate, nel suo italiano un po’ inceppato, a Sky da Toto
Wolff quando i cofani delle vetture irradiavano ancora tepore. Una
dichiarazione che immediatamente ha fatto il giro del web col fine di
sottolineare quel tratto fastidiosamente distintivo di un campione
che passerebbe, nell’immaginario del tifoso “poltronato”, più tempo a
proferire invettive che a gestire una monoposto da mille cavalli.
Quella di Wolff è una semplice fotografia caratteriale, nessuna
polemica. Nè frecciata. La comunicazione Mercedes, altro aspetto
vincente, è adamantina, defiltrata, decriptata. Sottolineare la natura di un uomo che gestisce in questa maniera la
propria tensione agonistica non ingenera alcun corto circuiti pilota –
team. Altrimenti il rapporto tra le parti non sarebbe così longevo né sarebbe così solido.
Quell’Hamilton che, a caldo, ha proprio
cercato Toto Wolff nel classico rituale dello champagne. Scena ripetuta con il suo ingegnere di pista Peter “Bono” Bonnington coinvolto nei
baccanali post podio. Forse un modo, da parte del “44”, di chiudere una fase
verbale poco gradevole e rendere i giusti meriti a un muretto che,
come fosse un’equipe di psicanalisti, ha ascoltato le reiterate rimostranze di
una persona quasi esplosa per la pressione, conducendola per mano ad
una vittoria che ha gran significato in chiave mondiale.
Non deve sorprendere, quindi, che una
macchina perfetta quale è quella di un team dominante curi anche questi
aspetti. Wolff e il suo staff sono stati capaci di gestire un Bottas
usato in ogni maniera immaginabile e non e di restituirlo alla pista
rinnovato, rigenerato. Efficiente. E pronto a vincere. Cosa che ha
fatto e che sta facendo in questo fase iniziale di mondiale creando
più di un grattacapo al più titolato compagno di squadra.
La gestione di certe situazioni, in seno
alla Mercedes, ricorda molto da vicino ciò che la Ferrari riusciva a
fare nell’era Todt-Brawn. Quante volte abbiamo visto il team
principal transalpino impartire ordini sgraditi a Rubens Barrichello
che, deluso e furente, ha dovuto sovente ingoiare rospi in nome di
una ragion di stato più alta? Alla Ferrari, evidentemente, sta
mancando una figura del genere; la figura di un uomo – o per meglio
dire un’equipe – col necessario carisma per governare alcuni
momenti.
#EssereMercedes, in chiusura, vuol dire
anche sapere amministrare una primadonna quale è il campione del
mondo in carica. Significa, in soldoni, ritenere l’esercizio della
pressione una questione di primaria importanza e non considerarla pratica di secondario piano.
Perchè la lucidità sotto
stress, spesso, fa la differenza tra una Q2 non agguantata e una
vittoria. La novantatreesima per Mercedes, la settantasettesima per
Hamilton. Che si avvicina col passo dello scattista al record che
fino a qualche anno fa sembrava infrangibile: le 91 stelle di Michael
Schumacher.
Autore: Diego Catalano @diegocatalano77
Foto: Mercedes
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Un altro importante punto di vista, complimenti!