Leclerc, Charles. Un nome minuto e leggero che annuncia un ragazzo foriero di speranze, ansioso di deliziarci con le danze della sua monoposto. Un nome comune e pesante che reca un’eredità gravosa, da stemperare nel luogo ideale, nel momento adeguato. Te lo ritrovi così, con quel sorriso gentile e con la tuta dell‘Alfa Romeo Racing, a indovinare un futuro cercato, fiutato, desiderato. Educato e gentile, lo sguardo maturo indirizzato verso il rosso Ferrari, approdo e sogno di un domani tutto da costruire.
Mentiva Charles, appena tolta la tuta da pilota, appena sceso da quella Prema che lo avrebbe consacrato campione di Formula 2. Una bugia bianca, lieve, a dispetto del peso enorme che andava a colmare. “Sarò un pilota Ferrari“. Una sorta di promessa travestita da verità per accompagnare il padre nell’ultimo viaggio, regalandogli un sorriso. Il sorriso con cui lo avrebbe ricordato nei terribili giorni a venire.
Charles Leclerc però non si ferma, anzi si afferma. A dispetto del dolore, che lo rende più maturo. Rispetto ad altri ragazzi, come lui affamati, animati da un desiderio immenso. Non ha parole, solo fatti, in quella Baku che lo consacra, appena dopo l’orrore, senza il timore di sbagliare. Un ragazzo che vince e pone quella coppa d’argento al centro di un addio, nella memoria indissolubile che lega padre e figlio, animati dallo stesso ardore. Papà Hervé e Charles uniti nell’ultimo saluto nel nome della pista, seguendo l’armonia dei motori, unico requiem che entrambi avrebbero riconosciuto.
Leclerc è questo e molto di più. Giovane all’anagrafe, veterano nell’agire. Figlio di una speranza realizzata, contemplata, assaporata con sapiente dedizione. Lo vedi e t’incanta, gli occhi di un blu scuro, insondabile, pronti ad annunciare un pacifico saluto, salvo poi evolvere nella tempesta di un’oscura battaglia. L’incedere è fiero, disinvolto. Il talento è evidente, già risolto. Dannatamente veloce, angelicamente preciso. Crudele, sparviero, messaggero di successi propiziati e conquistati a misura di sé, nell’angolo luminoso della sua stella nascente. E poco importa se qualche piede verrà pestato, se qualche gerarchia potrebbe essere scavalcata. Il talento è luce e Charles risplende. Per noi che amiamo la Formula Uno, per un ragazzo che già sa come farsi adorare.
Un ombrello sempre aperto, indipendentemente dai capricci del meteo. Il corpo agile rannicchiato nella minuscola alcova fornita da una protezione fittizia. Seduto a terra sull’asfalto, in attesa di cavalcarlo. Leclerc lo vive, lo cerca, lo annusa, mentre tutti stanno alla rinfusa sulla griglia di partenza, caos multicolore da cui vuole prendere le distanze. Sostanze varie, immutate. Scenari sempre nuovi eppure da studiare. Charles si isola da quel mondo in quel suo modo peculiare che già lo rende un’icona. La concentrazione come cifra distintiva e una malinconia lontana che lambisce il contorno dei suoi occhi, pronti a farsi affilati, spietati, nell’istante supremo della battaglia.
Charles Leclerc, una storia dipanata grazie a miriadi di sfumature. Racconti lieti evocatori di favole, attimi orribili fomentatori di incubi. Nel mezzo il sogno, sempre inseguito, che si chiama Ferrari, che conclama vittoria. La prima arriva in un giorno funesto, unica lieve carezza che consola, che vola ad accompagnare un amico sparito troppo in fretta. Il mito di Spa si congiunge a un dolore insanabile, con la perdita di Antoine, troppo folle per sembrare vera, troppo assurda per appartenere all’oggi. Ma il piccolo principe di Monaco riesce ad andare oltre le spine, deponendo la rosa del suo successo proprio in memoria del compagno, per tributargli il saluto più degno.
Poi arriva Monza, incredibile, inarrivabile. Per tutti tranne che per lui. Capace di domare sua maestà Hamilton, di tenerlo a debita distanza, con grinta pura, con cattiveria matura. Leclerc, l’angelo rosso, diventa un diavolo fin dal sabato, proteggendo la sua pole in modo furbo e consapevole, lasciando gli altri a dannarsi, a scannarsi, in merito a ciò che poteva essere. Una qualifica dai tanti interrogativi preludio di una gara che offre solo una certezza: Charles, domina, sgomina, contiene. Chiunque gli stia dietro, indipendentemente dal blasone.
Domenica è tempo di Suzuka. Meteo incerto causa tifone, un rinnovato allarme che risveglia antiche paure, timori e sospetti, difetti che appartengono all’universo umano più che a quello delle monoposto. La mente impietosa corre ancora verso una domenica di pioggia assassina, ricordo di tutti i fantasmi che vorremmo dimenticare. Che Charles Leclerc vorrebbe annullare. Una gara a singhiozzo che si dipana attraverso una lunga interruzione, per poi scivolare nell’attimo assurdo di una tragedia troppo immensa anche solo da rievocare. Jules e l’impatto fatale: imprevedibile, inimmaginabile, fino alla prova schiacciante offerta da un’immagine amatoriale.
La domenica di ottobre è pioggia e grigio. La giornata di luglio è sole e nero. Un lutto enorme e schiacciante per tutti coloro che vivono la Formula Uno, per tutti coloro che la seguono. Ma è devastante a maggior ragione per Charles Leclerc, un ragazzo di nemmeno diciotto anni, che perde un amico, un mentore, un fratello maggiore. Le parole sembrano inutili oggi come lo erano allora. Servono solo a definire, a contestualizzare un evento di cui mai avremmo voluto leggere.
Giappone, ancora una volta. Non si tratta di una novità per Charles, che qui ha corso nel 2018 con l’Alfa Romeo Sauber. Ma di certo rappresenta la sua prima uscita in rosso per omaggiare Jules, che ferrarista sarebbe diventato. L’emozione e il ricordo, suggestioni vivissime, accese, nuove sorprese da trasformare in un trionfo. Per omaggiare, per dedicare, per continuare a credere in un domani sempre più reale. Leclerc vorrebbe essere sul gradino più alto del podio, per riscattare l’amaro verdetto di Sochi, ma soprattutto per ribaltare l’assurda legge del destino, che cinque anni fa, a Suzuka, ha inghiottito Jules nel gorgo del mai.
Foto: Ferrari