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La cavalcata di Lewis Hamilton, “esacampione” del mondo

La cavalcata di Lewis Hamilton, “esacampione” del mondo


Alla fine è arrivato. Al terzultimo appuntamento del calendario iridato Lewis Hamilton è riuscito ad ottenere il sesto titolo della sua carriera staccando Juan Manuel Fangio e approssimandosi a quel Michael Schumacher che sembrava, fino a qualche tempo fa, inavvicinabile. Eppure il britannico ha costruito un percorso sportivo che potrebbe portarlo, nelle prossime annate, ad agganciare e superare il fuoriclasse di Kerpen. Ma questo è un discorso che sarà fatto – se sarà fatto – a tempo debito. Ora è il momento di celebrare un pilota che sarà ricordato come uno dei più grandi di sempre e che di certo ha segnato indelebilmente quest’era sportiva.

Il sesto campionato giunge a seguito di un GP degli Stati Uniti corso all’attacco dopo un turno di qualifiche sotto tono che aveva relegato Hamilton in una poco brillante quinta posizione sullo schieramento di partenza. Lo scatto lesto che brucia Leclerc e il sorpasso in un punto quasi impossibile a Vettel alle prese con qualche problema di troppo alla SF90, lo mettono subito in terza posizione. A causa di una strategia nel complesso meno efficace di quelle adottate da Bottas e da Verstappen manca la vittoria ma ottiene un ottimo – e nel finale sofferto – secondo posto tramite il quale archivia la pratica iridata.

Il piazzamento è l’ultimo risultato dopo una stagione dominata e nella quale solo il compagno di squadra ha provato a contrastarlo nella sua irrefrenabile corsa. Bottas, nelle prime quattro gare, aveva effettivamente dato filo da torcere al più blasonato collega, ma l’aria del Vecchio Continente ha ammansito le prestazioni del ventinovenne di Nastola esaltando, contestualmente, la verve del “44” che ha preso a martellare come un fabbro l’ex Williams e una concorrenza che fino al Gp d’Austria non è stata in grado di emettere uno squillo di tromba.

L’abbraccio tra Hamilton e gli uomini del suo team

Vittorie in Bahrein, Cina, Spagna, Monaco, Canada, Francia prima della battuta d’arresto austriaca nella quale la W10, per citare un glorioso album dei Pink Floyd, aveva mostrato il suo “Dark Side“. Problemi di raffreddamento, una turbina che soffriva l’aria rarefatta vanno a spezzare una striscia inimmaginabile alla fine dei test di Barcellona dai quali la Ferrari era uscita come la regina deputata a prendersi il reame. Poi la corsa riprende. Ad intermittenza: la gloria casalinga di Silverstone alla quale fa da contraltare la caduta dolorosa di Hockenheim nel giorno dell’anniversario al quale Stoccarda teneva più di ogni cosa. Ma Hamilton e il team si ridestano con solerzia con una vittoria, in Ungheria, che ricorderemo come una delle migliori dell’annata per un recupero poderoso operato ai danni dell’inerme Verstappen grazie ad una guida da vero fuoriclasse delle quattro ruote.

Si arriva così alla pausa estiva. Lewis è in fuga, Bottas caduto in uno stato semi-catatonico, Verstappen in forte ascesa e la Ferrari ancora è ancora a chiedersi chi fosse e cosa volesse fare in una stagione fino a quel momento sciagurata, fatta di rospi ingoiati e dati analizzati senza cavare il ragno dalla tana. Da Spa Francorchamps lo spartito cambia. Hamilton smette di fare il solista e deve vedere altre primedonne prendersi il palco e le luci della ribalta: la Ferrari emerge dal buio di una crisi tecnica improvvisamente risolta. Si prende coi denti e con le unghie Spa, Monza e Singapore. Una tripletta che rappresenta un pugno nello stomaco agli uomini di Brackely. E’ il momento più cupo della stagione di Hamilton che, usando una terminologia calcistica, non si disunisce. Tiene la barra dritta e non perde la concentrazione ritornando, in Russia, sul gradino più alto del podio. In Giappone si accontenta di un terzo posto che sa di regalo impacchettato e consegnato a Valtteri Bottas premiato per un week end comunque ottimo. In Messico un’altra grande vittoria dopo che il britannico aveva virato quinto alla prima curva dopo la doppia, dura, chiusura di Vettel e il rischiosissimo contatto con Verstappen. Ciò che è successo negli States è storia recentissima e arcinota.

stretta di mano tra Lewis Hamilton e Valtteri Bottas

In questo campionato abbiamo osservato un Hamilton “sdoppiato”. Alla versione domenicale, di cui si è discusso sinora, ha fatto da contrappeso un’edizione del sabato. Va detto senza giri di parole: quella di Lewis non è stata la miglior stagione in qualifica. Finora, in termini di pole, ha fatto meno di Leclerc e soprattutto meno di Bottas che dispone dello stesso ferro del mestiere. E il dato fa riflettere perchè il 34enne di Stevenage è il maestro della specialità dall’alto delle 87 partenze al palo in 246 gran premi disputati.

I motivi? Diversi. Sicuramente un Bottas che sul giro secco riesce sfruttare meglio il potenziale della W10. Ma anche un Hamilton apparso un po’ pasticcione nella decisiva Q3. Un po’ la voglia di strafare, un po’ qualche calo di concentrazione, fatto sta che lo specialista abbia ottenuto il peggior dato dell’era turboibrida. E’ plausibile ritenere che Hamilton abbia un feeling maggiore con sua monoposto quando c’è da metterla sul ritmo gara. Ieri sera ne abbiamo avuto ennesima riprova. E’ altresì immaginabile che Hamilton abbia scientemente lavorato per ottenere assetti compromissori che sacrificassero, in parte, la velocità in qualifica in favore del passo gara. Che quest’anno è stato costantemente superiore a quello di Bottas. Una strategia, insomma, mirata a massimizzare la gestione delle gomme che, in taluni casi, mi ha fatto ricordare l’approccio di gara che aveva un altro pilota “niente male” che risponde al nome di Alain Prost.

Le difficoltà al sabato rendono, se vogliamo, ancor più meritoria l’opera del sei volte iridato. A fine anno Lewis abdicherà, con tutta probabilità, a Charles Leclerc lo scettro del poleman stagionale, ma è una concessione che l’imperatore Luigi VI può concedere senza dolersene troppo.

Hamilton è dunque nella storia e ha altre due cartucce da sparare per aumentare il bottino di gare vinte. Prima che inizi un periodo di meritato riposo che lo porterà al 2020, l’anno in cui si chiuderà l’epopea di queste monoposto che cederanno il passo a bolidi di diversa concezione in forza di una rivoluzione senza precedenti nella storia della F1. Dal 2021 potrebbe succedere di tutto: i valori di forze così come li conosciamo potrebbero esser spazzati via. Quindi il campionato prossimo potrebbe essere un’occasione irripetibile per Hamilton per diventare, numeri alla mano, il più grande di sempre.

Lewis Hamilton e la sua Mercedes W10: un matrimonio perfetto

Senza proiettarci con troppa fretta al campionato che verrà bisogna guardare ciò che è stato scritto nel 2019. Osservare le prestazioni di un esacampione del mondo è un privilegio. Gustarne le doti di pilotaggio è un beneficio. Apprezzarne la tenacia è una fortuna. Stiamo parlando di un pilota che in 13 stagioni complete ha guadagnato sei titoli e due volte è stato vicecampione del mondo mollando la preda per un soffio. In 70 anni di storia della F1 ha vinto quasi il 10% dei campionati, cosa riuscita a quello Schumacher che “The Hammer” ha messo nel mirino. Ecco perchè è doveroso non sminuirne l’impresa e la portata storica. Se un altro monolite di questo sport che risponde al nome di Sebastian Vettel si sente in dovere di tributargli i meritati onori non si capisce perchè continua, in alcuni ambienti, a strisciare una sinistra diffidenza nei riguardi del britannico. “Vince grazie alla macchina”. E’ vero. E’ sempre stato così in questa disciplina nella quale ad imporsi è il pacchetto migliore. Si chiami Hamilton-Mercedes, Senna-McLaren, Schumacher-Ferrari o Vettel-Red Bull. Godiamoci questo fenomeno lasciando, una volta tanto, da parte polemiche e simpatie soggettive.
Grazie, “esacampione”. E’ stato un onore guardarti all’opera e, umilmente, raccontarti.

Autore: Diego Catalano@diegocat1977

Foto: Mercedes AMG F1

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Diego Catalano