Formula 1

La vera eredità di Ayrton Senna

La vera eredità di Ayrton Senna


26 anni fa Ayrton Senna perdeva la vita al Tamburello durante il 14esimo Gp di San Marino a Imola. 1 maggio 1994, una data scavata col solco delle lacrime per chiunque ami il motorsport e non solo. Riavvolgo il mio personale nastro del tempo: avevo 14 anni e Senna per me era una presenza abituale in TV, a domeniche alterne. Avevo iniziato a seguire la F1 molto presto, a 4/5 anni mettendomi a fianco di mio papà sul divano di casa e fu amore prepotente, benedetto dal fascino della velocità che vedevo scorrere, e quasi uscire, fluida dal teleschermo. Dopo aver tifato Lauda in McLaren, più grandicella aderii alla passione paterna: Ferrari. Ferrari = Prost. Ho quindi vissuto Ayrton come avversario, ma nell’ ‘89-‘90’ ero ancora troppo giovane, ingenua e priva della capacità critica necessaria per analizzare le cose con obiettività fuori dal tifo. Eppure, anche da antagonista, senza accorgermene mi attaccai ad Ayrton, lo ascoltavo, lo osservavo, lo vedevo vincere. E capivo che aveva qualcosa di diverso da ogni altro. 

Mi impressionavano le sue parole tese al perfezionismo, anche dopo una buona prestazione. Perché non si accontenta mai? Mi chiedevo. Veniamo a Imola 1994: il cuore spezzato il giorno prima dalla morte di Roland Ratzenberger, il primo pilota che ho visto perire durante un weekend di gara. Ricordo ancora l’annuncio dato su Rai2 a Dribling da Gianfranco De Laurentiis e il pomeriggio cupissimo che ne seguì. Domenica 1 maggio, festa del lavoro, ma anche compleanno del capofamiglia: programmiamo il videoregistratore e andiamo a pranzo fuori. Al ritorno, io filo in camera a fare i compiti di scuola, il GP ce lo saremo visti a cena, insieme dalla registrazione. Poi, realizzo di aver dimenticato qualcosa, passo in salotto e…vedo mio papa’ raccolto sulla poltrona con un’espressione in viso terrea. “Che è successo?”, dico e mi sporgo verso la TV. Passano le immagini dell’elicottero sul relitto della Williams, Ayrton esanime a terra con i soccorritori e un’enorme macchia di sangue. Mi scappa un urlo. Corro in cucina, televideo, pagina 103, caratteri cubitali: “Ayrton Senna è clinicamente morto”. Erano circa le 18. Mi si apre una voragine sotto ai piedi e una ferita che negli anni saprò non essere rimarginabile.

Torniamo a oggi. Per Ayrton campione non c’è certo bisogno delle mie parole, basta rivedersi quelle gare, o ricordarle se si ha avuto la fortuna di viverle, parlano da sole. Su tutte, Donington 1993: una consacrazione senza possibilità di contraddittorio. Ma perché, 26 anni dopo, siamo ancora qui a ricordare, con amore e autentica partecipazione, un pilota brasiliano che (purtroppo) non corse per la Ferrari? Si tratta della vera eredità di Ayrton Senna, quella di uomo.

Sapete, non bastano le vittorie in pista. Certo, sono la sostanza delle competizioni, l’obiettivo vero. Ma un pilota “solo” vittorioso, anche estremamente, resta una stupenda scatola vuota se non esprime anche la propria anima. E Ayrton Senna Da Silva esprimeva la sua in ogni gesto: senza intenzione studiata, con semplicità la sua carica umana straripava dai confini del suo corpo, era la sua natura.

Gli occhi, per esempio. Guardate le sue immagini, troverete nello sguardo un’intensità non comune. Spesso del tormento. Si’, perché per Senna il percorso verso la perfezione era un logorio continuo, interno, intimo, insopprimibile. Una spinta che lo costringeva a tendere costantemente a non accontentarsi (ecco la risposta alla mia domanda da bambina) a mirare verso l’oltre del limite appena raggiunto. Questo gli costava ogni giorno: chi vede la vita dorata, la ricchezza, sbaglia, restando in superficie. Senna non si dava tregua, mai. E’ stato lui a portare la preparazione sportiva, l’allenamento minuziosamente studiato nel mondo della F1. La sua era dedizione totale che non prevedeva distrazioni, nonostante avesse potuto, visti i risultati. Se qualcosa era blandamente concesso, restava in confini, steccati predefiniti di ferrea disciplina, il sacrificio ripetuto come un mantra. Ayrton ha incarnato, letteralmente, l’ardere per la vittoria.

E poi: le parole. Fateci caso: non esiste intervista o dichiarazione che manchi di trascendere dalle corse, più o meno direttamente. Ascoltare Senna, significava entrare nella dimensione dell’emozione, del vissuto intimo della natura umana. Mostrava, condivideva (allora non c’era internet, figuriamoci i social, e questo concetto non era così immediato) ciò che lo attraversava nel profondo durante quelle incredibili imprese sportive. Con lui la F1 diventava vita. Sentimenti, sensazioni, a volte rabbia, altre commozione: forza e debolezze esposte senza filtro, potentissime. Parole che gli sono anche costati scherni, non dimentichiamolo, come successe quando esternò la sua profonda fede in Dio. Essere così per Ayrton Senna non è stato comodo: prestava il fianco ai detrattori, agli avversari, gli forniva argomenti con cui sminuirlo, non potendolo fare in pista. Eppure, lui non solo non ha mai negato la propria natura, ma l’ha sempre rivendicata con orgoglio.

Eh, dici orgoglio e pensi alla bandiera verde oro del Brasile, cercata, raccolta in pista e sventolata dopo ogni vittoria con fiera rivendicazione patria. Così è diventato “Ayrton Senna do Brasil” per la sua gente, celebrato come un eroe, simbolo di un Paese fatto, più che di differenze, di crudeli solchi sociali, ma che lo ha eletto a simbolo trasversale, immagine d’unità. E lui ricambiava, a modo suo, ovviamente. Senza farlo sapere, destinava enormi somme in beneficenza e studiava un modo per strutturare quell’attività’ benefica, per potenziarne gli effetti. Ancora una volta siamo davanti al prepotente tratto umano che si fonde e supera l’essere campione.

Da quel desiderio, realizzato dall’amorevole sorella Viviane, è nato l’Instituto Ayrton Senna che a oggi aiuta, fornendo loro formazione scolastica, qualcosa come 18 milioni fra bambini e ragazzi e a cui va gran parte dei proventi del merchandising ufficiale dedicato alla sua memoria. Io non ho mai conosciuto Ayrton, non l’ho mai nemmeno visto dal vivo in pista, eppure nessuno mi ha ispirata più profondamente. E’ diventato il faro a cui guardare per provare a costruire una vita giusta: voglia, ambizione, sentimento, sacrificio, empatia per l’altro. Questa è la vera eredità di Ayrton Senna: un’intensità che ha bucato ogni filtro, arrivando dritta al petto. Ventisei anni dopo la sua morte, oggi ancora lo piangiamo perché la sua vittoria più grande è stata conquistare eternamente la parte più autentica e profonda di noi.

Autore: Elisa Rubertelli@eli-funoat

Foto: Formula Uno

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Elisa Rubertelli