Schumacher non è un numero
Numeri: segni grafici come arabeschi, cornici, linee di demarcazione in grado di definire o di evidenziare un significato. Numeri come simboli, traguardi, oppure ossessioni. Rappresentano una sorta di magia sublime, un esercizio di stile, un archetipo universale. Mai ridondanti, sempre chiari, addirittura lampanti. Un’estasi per chi li usa come strumento. Un tormento per chi li considera solamente mezzi di un’altra espressione. Perché i numeri non hanno colore e neppure sfumatura. Non hanno tempo e non hanno luogo. Non raccontano e non condannano. Restano inermi, buoni solo per contare, ma non per evidenziare ciò che conta davvero.
Occhi. Carboni ardenti spietati, colpevoli di dilaniare ogni avversario, contro due pezzi d’azzurro dalla purezza cristallina, pronti a donare, in attesa di domare, anche loro, un giorno. Lewis e Mick: il campione e il ragazzino, uniti nel nome di qualcosa che sa d’immenso. Il pilota vestito di nero è l’uomo dei record. Il giovane vestito di rosso è il figlio di chi, per primo, li ha conquistati. Entrambi, soprattutto oggi, sono tutto fuorché numeri. Lo sguardo di Hamilton è pura luce incastonata tra visiera e mascherina. Si tratta di una scintilla, di un orgoglio represso in nome della commozione. Non rappresenta la gioia di una vittoria qualsiasi. Conserva qualcosa di estatico, quasi di ieratico. La mano s’infila nel casco che non gli appartiene, con la cura delicata che si riserva a una reliquia. Poi quel casco purpureo si alza, sollevato e animato dal suo braccio. Gli occhi scuri ne seguono il movimento, scrutando verso un altrove. Un punto indefinito, tra cielo e terra, in quel luogo speciale dove continuano a vivere le leggende.
Michael Schumacher è leggenda pura. Qualcosa che trascende la precisione asettica del numero. Il Kaiser non sarà mai un 91, così come Senna non verrà mai rappresentato da quel 65. Il senso della velocità ha a che fare con un’ebbrezza continua, quasi infinita, ed è ciò che rende immortali. Al di là dell’anagrafe e delle circostanze. Le loro storie, pur così differenti, hanno lasciato ben altra eredità e non ci sarà mai una cifra in grado di descriverli o di soppesarli. Il loro tempo è disegnato da un arco più ampio, che si chiama memoria. Fuori da questo, ogni medaglia e ogni coppa assumono un valore relativo.
Ecco perché Hamilton non ha rubato, non ha oltraggiato. E i suoi record non hanno nulla di immorale o d’ingiusto. Vanno presi in quanto tali, perché Lewis è figlio del suo tempo, un tempo che gli calza a pennello e nel quale lui stesso riesce a esprimersi con una perfezione raramente replicabile. Un binomio tra talento e modernità, tra pilota e auto, tra l’universo delle corse e il mondo che sta al di fuori. Se il passato bussa alla sua porta è semplicemente per richiamare qualche suggestione, per iscriverlo di diritto nei grandi. Ma non c’è bisogno di un numero, o di un titolo, per legittimare quanto già evidente.
Anche Schumacher ha domato il suo tempo, lo ha plasmato a sua immagine e somiglianza. Tanto che per noi nostalgici di quegli anni, il viso del grande tedesco è un tutt’uno con il Cavallino. Michael è il vero antesignano dell’#essereFerrari, di quell’epoca in cui l’unico social era una tribuna gremita e l’unico hastag era rappresentato da un nome straniero che campeggiava a caratteri cubitali sugli striscioni. La sua storia è fonte inesauribile d’ispirazione, perché ci ha mostrato, stagione dopo stagione, l’evoluzione del pilota e dell’uomo.
C’era una volta una tuta verde, a rivestire le speranze di un ragazzo di 22 anni, catapultato dal nulla in mezzo alle suadenti insidie di Spa Francorschamp. I capelli castani, leggermente ondulati, sparivano sotto al casco, lasciando lo spazio a uno sguardo determinato, quasi sfrontato, di quelli che non si fanno dimenticare. Promesse mantenute, opportunità raccolte. Anni rocamboleschi, fatti di fame e di rabbia. Un ragazzo vestito di giallo con piglio deciso e scontroso, quasi irriverente, al cospetto di sua maestà Ayrton. Il giovane Michael era così, prendere o lasciare. Duro e granitico all’apparenza, quasi impossibile da scalfire. Implacabile e crudele in pista, forte e coriaceo nella vita.
Due titoli in Benetton, una sfrontatezza che sembrava il suo tratto caratterizzante. Poi il grande salto, a bordo di quella Rossa che l’avrebbe maturato e reso indimenticabile. Schumacher e la Ferrari erano realtà e alla fine sono divenuti un sogno. Il più bel sogno a occhi aperti, nell’alba indimenticabile di Suzuka. Tre, il numero perfetto. Ma non perché rappresentasse il suo terzo mondiale, solamente perché ha siglato un patto di sangue e di amore con i suoi tifosi. Ancora una volta trattasi di una caratterizzazione relativa, di una cifra che sbiadisce, surclassata da un tripudio di rosso. Quello delle piazze e delle bandiere, quello dei box e delle parrucche, quello del Cavallino e dei nostri cuori.
Michael poi stupisce e continua a farlo. Vince sempre, lo fa ovunque, con una semplicità e una naturalezza che resta ineguagliabile. Il profilo, già volitivo, si assottiglia, i capelli sono più corti, gli occhi diventano più caldi. L’uomo macchina si umanizza, senza perdere nulla della sua infallibilità. Come ha scritto Leo Turrini in ‘Schumacher. La leggenda di un uomo normale’: “Schumacher è un orco che divora le vittorie e non si ferma mai a contemplarle“. I suoi trionfi non sono trofei, solamente altri tesori da aggiungere e mettere in cassaforte, senza troppe celebrazioni di sorta.
Sguardo fisso in avanti, concentrazione al massimo. Tanto si deve, al nuovo corso delle cose, con giovani agguerriti avversari che paiono sul punto di detronizzarlo. Le scaramucce con Juan Pablo Montoya. La contesa, dura e leale, contro Kimi Raikkonen. Il passaggio di consegne con il nuovo campione Fernando Alonso. Sequenze infinite di attimi vissuti all’ultimo respiro, emozioni intense che hanno regalato un altro sapore e un altra dimensione all’uomo Michael. Tra i più grandi nella vittoria, immenso nella sconfitta.
L’ultimo Schumacher guida una monoposto grigia ancora tutta da svezzare, una stella destinata, più tardi, a rifulgere nel firmamento. La tuta bianca, i capelli più radi, lo sguardo addolcito nella carezza di qualche ruga. I sorrisi si fanno più frequenti, l’italiano stentato diviene più eloquente. Ci saluta con una pole a Montecarlo, cancellata come numero, marchiata a fuoco nei ricordi. Si accomiata dal podio di Valencia, con una presenza discreta, per non offuscare quelli che, al momento, sono i veri protagonisti. Un faro che guida le navi in porto, ma non ne ruba la scena all’approdo. Un uomo che ci saluta brillando di luce propria, con l’abbraccio degli occhi. Verdi come quell’auto dove tutto è iniziato. E con in mano un casco. Rosso, come il colore del suo destino.
Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
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Un articolo magnifico. Grazie!