EssereFerrari: l’ultima Imola
Imola. Un foglio bianco, tutto da riempire, anche se resta ben poco da dire. L’ennesima provocazione di un anno infame, che gioca a fare il beffardo, fregandosene di tutto. Questa settimana è tutto più difficile, perché in certi momenti le parole pesano di più. Vorrebbero parlare di coraggio, di resistenza, di quella voglia di andare avanti che, nonostante tutto, appartiene all’essere umano. Ma le città sono simili a fantasmi, svuotate dal dolore, dalla paura, dalla prudenza. Nebbie fitte che neppure un sole mediterraneo riuscirebbe a diradare. Uomini come automi, che si muovono nella perenne sensazione di sbagliare, di esagerare, mentre in fondo stanno solo vivendo, esistendo malgrado questo vuoto, nello stretto lenzuolo di ciò che rimane lecito.
Doveva essere memorabile il ritorno a Imola, quella pista fatta di vitalità e di amarezza, di memorie da custodire o da seppellire, a seconda dei casi. Invece un altro vuoto, come tanti nel 2020. Più assordante, proprio perché ci ha privati di un’identità nel momento in cui essere uniti poteva fare la differenza. Non è retorica, ben lungi, ma vuole essere storia ed esempio. Di una forza che ci servirà, nel corso dei mesi a venire. Di quello che chiamano resilienza, una parola abusata, mai amata, troppe volte ridondante, ma ora stranamente calzante.
Oggi #EssereFerrari non è più uno slogan, una captatio benevolentiae a uso e consumo di un nuovo corso. #EssereFerrari deve diventare l’ultimo grido di un periodo sofferto, perché non è un inno da cantare sui balconi, non è uno striscione da appendere maldestramente fuori da una finestra. Rappresenta la voce del popolo dei motori e deve udirsi forte e chiaro, nel ricordo di chi è stato, in onore di chi sarà. Il prossimo eroe, la prossima favola da raccontare. Imola dunque, con il suo passato ingombrante e dolente, mitigato dalle colline, edulcorato dalla leggenda, fomentato dalla passione.
Imola è una storia che non ha colori, solo tante bandiere, troppo volte mestamente esposte senza richiamare vittoria. Imola è Ayrton e Roland, fratelli che non condividevano patria, ma la stessa terra che li ha accolti nell’anelito implacabile di una morte quasi condivisa. Imola è Didier e Gilles, amici fraterni divisi da una striscia d’asfalto da conquistare, da un tabellone ambiguo con ordini difficili da rispettare. Imola è Michael che ritorna a graffiare, mostrando l’artiglio del campione, prima con una rimonta eccelsa, poi in una delle sue gare più belle, nell’anno del cocente addio dal Cavallino.
Imola è vita, è morte, è Ferrari. Ebbene sì, ancora oggi, nonostante la Rossa abbia disatteso ogni pronostico, ogni desiderio, ogni flebile speranza. Una mattanza che conta pochi e eguali, mentre i rivali festeggiano in parata un dominio che pare frutto di un incantesimo, o per quanto ci riguarda, di una fattura. Il Gran Premio dell’Emilia Romagna è nero, come la livrea della monoposto che trionfa. E’ color acquamarina, come le magliette indossate per la festa. E’ rosso come la vergogna di una mesta rassegnazione da parte del Cavallino che non riesce a recuperare.
Ma la Ferrari qui è di casa ed è fatta per smuovere desideri. Appartamenti con vista circuito, bardati a festa ben prima di Natale, illuminati da sguardi più potenti di ogni luminaria. E questa monoposto azzoppata, deludente in qualifica, mai irriverente in gara, ancora conta schiere di ammiratori. I più assidui sono rappresentati dai piloti. Con Charles che ci prova, sfidando la velocità alla ricerca di quel giro che lo potrà togliere dagli inferi del centro gruppo. Con Sebastian attardato, che rispolvera il suo dna da campione in gara, recuperando giro dopo giro, arrendendosi solo alla sfortuna di un pit stop esageratamente lento. Ragazzi che continuano a coltivare un sogno in un anno da incubo.
Sogni che diventano scuri, intrappolati nell’aria grigia di un domani tutto da decifrare, per noi e per questo sport. Speranze appese alla possibilità di modificare, di plasmare, di muoversi entro regole che, oggi più che mai, rivelano il connotato dell’assurdo. Eppure resta la luce, flebile e sommessa, ma comunque decisiva, di chi mostra grinta e coraggio. Come Leclerc, nel sorpassare magistralmente chi ne ha poco, chi non ne ha più. Comunque bravo a creare sussulti, nonostante gli spalti vuoti. Come Vettel, motivato a lanciarsi da una postazione in griglia che gli va stretta, pronto a distinguersi e poi a digerire anche l’ennesima delusione.
Sebastian è sempre sulla forca, bersaglio di troppe inutili parole, che diventano critiche per mancanza di argomenti. Ci sarebbe di che adirarsi, di che sfornare commenti al vetriolo. Ma il tedesco non è fatto di questa pasta e, indipendentemente dai risultati, riesce a mantenere intatto il vero spirito che anima questo sport. Attento e accorto in fase di gara, consapevole di avere un danno (endplate divelto causa collisione con Magnussen), poi non rilevato dal muretto, non si perde in inutili rancori. Neppure in seguito al contrattempo occorso ai box. A fine gara, trova le parole giuste, in lingua italiana, per omaggiare la carriera di Claudio, meccanico di lungo corso e prossimo all’addio.
“Non preoccupatevi del pit stop. Grazie a Claudio, grazie per un sacco di anni, sei un gentleman“. Vettel si esprime e parla dopo una gara da dimenticare, conquistando ciò che vale quanto una vittoria: la stima di chi lavora accanto a lui. Qualcosa di inatteso, e che, proprio per questo, fa breccia nel cuore degli appassionati. Perché la Formula Uno è come un grande concerto di gruppo, in cui ognuno suona uno strumento, in cui ognuno contribuisce a rendere viva la partitura. Alcune note risulteranno sublimi, altre stonate. Ma la musica della vita le contempla entrambe. Al pari dell’#EssereFerrari, che è coscienza e accettazione, impeto e dedizione.
Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
Foto: Ferrari – Formula Uno
EssereFerrari: l’ultima Imola