Numeri unici, atti a siglare una carriera difficilmente eguagliabile in F1. Numeri tondi da bilancio, utili a evidenziare, ma non narrare davvero. E poi quel 100, così suggestivo, così eterno. Hamilton a tre cifre come nessuno mai in F1. Lewis sull’Olimpo a raccogliere istanti di gloria da aggiungere come pietre preziose alla sua corona. Re dei circuiti, imperatore della velocità. Eppure qualcosa non torna in quella sequenza di cifre, grandiosa, ma pur sempre anonima. Manca un tocco di calore, un guizzo di fiamma, una sfumatura di rosso.
Manca una tuta Ferrari e soprattutto quel cavallino imbizzarrito che campeggia all’interno dello scudo giallo, eterno oggetto del desiderio di ogni pilota. E non importa se esso sia più lento, fiaccato da qualche malanno, azzoppato a causa di un male oscuro. La seduzione che esercita rimane intatta e lui continua ad irretire schiere di giovani promesse o di professionisti realizzati.
Maranello è il simbolo della F1, indipendentemente dai risultati. Ne sanno qualcosa Fernando Alonso e Sebastian Vettel, immolatisi per la causa, abbandonati e traditi a dispetto delle più serie intenzioni. Lo comprende bene Charles Leclerc, fiero e orgoglioso delle sua squadra, nonostante il mezzo poco performante.
Ma soprattutto lo riconosce Hamilton, l’uomo invincibile, il mietitore di successi. Un epopea fatta di luci sfavillanti, all’interno della quale permane un minuscolo cono d’ombra capace di raffreddare la tiepida beatitudine della gloria. Lewis accoglie una sequenza di ricordi che riaffiorano oltre la pioggia gelata dei fischi ad ogni riedizione del Gran Premio d’Italia. Monza bellissima e ostile solo perché lui è l’avversario. Ma anche una Monza generosa che, per bocca dei suoi tifosi più lungimiranti, gli lancia un invito. Gli pare ancora di sentire distintamente quelle tre parole di cui comprende il significato: ‘Vieni in Ferrari‘.
Perché Ferrari è meta e al tempo stesso viaggio. Una destinazione agognata e una lunga strada verso l’ignoto, che non sempre parla di trofei, ma che scalda l’anima come nessun’altra impresa. Lewis tra i brividi, pur saldo come una roccia, gli occhi tesi al traguardo, il cuore che ogni tanto avvampa in quella terra rossa e passionale.
“The Hammer“si sente un estraneo e ritrova quel ragazzino di Stevenage compiacente e azzimato, quello cresciuto nel segno della McLaren, lontano dalle sirene purpuree di Maranello. Ripensa alla scelta di approdare in Mercedes, alle parole convincenti di Niki Lauda, alla sequenza inarrestabile di trionfi. Felice e grato per ciò che ha ottenuto, ma forse curioso di sapere come sarebbe andata con il Cavallino.
Intendiamoci, Hamilton non ha nessun rimpianto e non potrebbe essere diversamente, dato quanto ha conquistato. Si tratta solo di un pensiero dolce amaro che si fa largo nella sua mente ora che è vicino il momento di tirare le somme. Ed è proprio questo che i numeri non riescono a spiegare. Quella domanda che s’insinua subdolamente tra le pieghe del tempo e alla quale neppure lui stesso è in grado di dare una risposta. Eppure, a sua detta, è quasi folle realizzare di non aver mai guidato una Ferrari nel corso della sua carriera in F1, e solo ora se ne chiede il perché.
Essere un pilota della Rossa rappresenta un traguardo da raggiungere ed è il sogno di tutti: Hamilton non fa eccezione. Il destino di Lewis però lo ha indirizzato verso altri lidi e non si è mai verificata una proposta concreta o una possibilità tangibile di avvicinarsi alla Ferrari. Il sette volte iridato e Maranello sono sempre stati due rette parallele destinate a non incontrarsi, a sfidarsi, a battersi. Ed è esattamente ciò che accadrà da qui alla fine dell’illustre carriera del driver inglese, motivato a continuare la lotta con la blasonata scuderia italiana.
Una battaglia che ha il sapore di resa incondizionata, perpetrata poiché altro non è contemplabile. Se non si può ottenere la Rossa allora non resta che odiarla, impersonandone fino alla fine l’acerrimo nemico. Una sorta di rituale pagano che contempla anche la presenza del feticcio: quelle due Ferrari presenti all’interno del box. Un piccolo surrogato per placare il desiderio e per arginare la nostalgia. Perché Sir Lewis non rinnega nulla di ciò che ha fatto, ma, per sentirsi realmente completo, avrebbe bisogno di un tassello mancante, di quell’aura rossa capace di renderlo imperituro.
Foto: Mercedes AMG F1 Team – F1