F1. Volare. Il volo è vita, sogno, archetipo. Anche fuga, alle volte. C’è qualcosa di vivo, di trepidante, in ogni istinto che ci porta a contatto con la velocità. Lo sapevano i piloti di un tempo, quelli che fendevano l’aria in uno stato di ebbrezza che mai nessuna sbornia avrebbe potuto eguagliare. Lo sanno i piloti di oggi, che mordono l’asfalto in preda a una smania furiosa, calcolata o incolta, comunque accesa, contesa. I piloti sono fiato, sono vento, sono figli del paradiso.
Alcuni lo hanno raggiunto troppo presto, altri, fortunatamente, lo hanno solo sfiorato. Qualcuno, invece, è tuttora nell’Olimpo. Poi c’è Gilles, che è ovunque, in terra e in cielo, ma soprattutto nel cuore della gente. Pochi come lui hanno offerto e incarnato l’emozione, il guizzo imprevisto, la follia impazzita della passione. Non è stata una questione di coraggio, neppure di incoscienza.
Villeneuve era fatto così, nato per l’estremo, disegnato per l’infinito. Il viso angelico dai tratti fanciulli, la voce pacata, lo sguardo malinconico facevano di lui un piccolo fantino. Eppure aveva dentro di sé una forza incontenibile, mai sconfinata nella rabbia, definita esclusivamente dall’estro.
Qualcosa di primordiale e di incomprensibile per chi se lo trovasse davanti agli occhi. Il profilo delicato, i capelli castani lisci e un viso perennemente bambino, prematuramente spento, non facevano di lui un avversario, uno sfidante credibile. Nonostante questo, il minuto Gilles dal Québec si è imposto al mondo con grinta e furore, come tutti coloro che hanno la forza di osare, indipendentemente da ciò che sarebbe più opportuno.
La mente vaga e indaga, scorge, soppesa, apprezza. Le similitudini sono spesso forzate a vantaggio di slogan, specie nella nostra epoca che ama vendere prodotti da fast food, utili per acchiappare, per accaparrare quanto più pubblico, indipendentemente dalle competenze o dai ricordi. Anche la F1 ormai strilla prostituendosi al miglior offerente, mentre purtroppo i motori smettono di urlare, intonando un coretto azzimato dai toni ibridi.
Siamo reduci da Miami, il circuito di plastica, popolato da vip più o meno noti in forme di Barbie e di Ken, dove persino il mare è finto e la sabbia posticcia. Siamo desolati e disgustati da un’assurda deriva. Eppure continuiamo a incantarci, tremendo e sobbalzando ad ogni partenza. Specie quando là davanti c’è una Rossa, specie quando la guida un ragazzo monegasco la cui tempra fa innamorare. Non è così minuto, ma ha un viso d’angelo cha pare indugiare ancora nell’adolescenza.
Ha un sorriso dolce e uno sguardo delicato, la caparbietà innata e quel pizzico di follia che ce lo rende caro. Sempre al limite a costo di sbagliare, ma pronto ad ammettere l’errore, a tornare più forte, a ribaltare ogni verdetto. Anche lui parla un italiano edulcorato dall’accento francese, non troppo invadente come potrebbe esserlo quello d’oltralpe.
Lo hanno detto nella foga delle telecronache, lo hanno ribadito tentando di costruire un nuovo mito, ma pareva tutto troppo forzato, inutile, ridicolo. Eppure stasera mi accorgo che, come in tutte le leggende, c’è un fondo di verità. Charles Leclerc è quasi un nuovo Gilles.
Non si tratta di sensazionalismo, piuttosto di ombre, di sfumature. Non parliamo di una fotocopia, ma di alcuni tratti per certi versi, potrebbero sovrapponibili. Qualche linea, molti acuti, note sparse. Come quelle suonate da Gilles e dalla sua tromba. Come quelle che ci regala Charles al pianoforte. Come le molte cantate da entrambi a bordo di una Ferrari.
Foto: Scuderia Ferrari