Il suono dei bolidi di F1 che hanno sfrecciato lungo stradine del Principato ha lasciato spazio al silenzio assordante della ragione che, nelle menti e soprattutto nei cuori del popolo della rossa, aumenta con il passare dei giorni. Indicando coloro che il giorno dopo la gara sapevano solo criticare gli errori della sua Ferrari, con il senno di poi, li aveva battezzati: “Ingegneri del lunedì”. Il Drake, agitatore di uomini e talenti, nell’intento di proteggere la sua creatura, schermava la scuderia da qualsiasi tipo di attacco per poi lavare i panni sporchi in casa senza troppi fronzoli.
Ferrari ha cambiato pelle oramai da molti anni, sapendo rimanere al passo con una concorrenza temibilissima e alternando periodi di trionfi a concenti sconfitte. Cosa avrebbe pensato il “Grande Vecchio” della Caporetto di Monaco? Avrebbe certamente salutato con gioia una eventuale vittoria di Sainz cosi come ebbe modo di dire a Gilles Villeneuve all’indomani del Gran Premio di Imola edizione 1982:“Oh, ma in fondo ha vinto una Ferrari e a me sta bene così. Fine dei discorsi”.
Un ragionamento crudo, sintesi del Ferrari-pensiero, vince la monoposto non il pilota. Da allora la F1 è cambiata sotto ogni punto di vista e l’accesa concorrenza dei più potenti colossi dell’automotive ha imposto nuove strategie, volte a massimizzare il risultato sportivo in funzione dell’enorme ritorno economico derivante dai successi in pista. Tale approccio strategico è stato alla base dei successi del Cavallino Rampante, all’alba del terzo millennio, attraverso una chiara gestione sportiva e dei ruoli fatta su misura del proprio condottiero di Kerpen.
Sarebbe lodevole in termini sportivi garantire sempre e comunque pari trattamento ai propri piloti ma altrettanto anacronistico nell’ottica del bene supremo del team: la scelta della migliore strada percorribile per raggiungere il successo. La necessità di liquidare troppo superficialmente Sebastian Vettel rappresenta la genesi del peccato originale.
Le prestazioni offerte dal pilota tedesco nel biennio 2019/2020, unitamente ai rapporti non idilliaci con il team principal italo svizzero, hanno di fatto spalancato le porte di Maranello a Carlos Sainz, scelta dai più considerata funzionale alla definitiva consacrazione di Charles Leclerc. La continuità di rendimento dell’iberico durante la scorsa stagione è stata ossigeno puro per Binotto, a supporto delle poco eleganti stilettate verso il quattro volte campione del mondo di Heppenheim:“Finalmente possiamo contare su entrambi i piloti. Sono molto contento della nostra coppia attuale”.
Queste le dichiarazioni ripetute in più circostanze nel corso della stagione 2021, avvalorate dalla classifica finale in cui lo spagnolo è riuscito a sopravanzare l’enfant prodige monegasco. Se il clima di massima collaborazione e parità di trattamento è auspicabile in un team che sta risalendo la china, inizia a essere di difficile comprensione alla luce della leadership tecnologica della F1-75.
Dopo sette round è possibile affermare in modo oggettivo che la Red Bull sia stata superiore alla Ferrari nel solo weekend di Imola, fortemente condizionato dalle avverse condizioni metereologiche. Anche per un profano è lampante la distanza in termini di performance tra Charles e Carlos, sia in qualifica che sulla distanza di gara.
Il leitmotiv made in Ferrari della “migliore coppia dello schieramento” inizia a fare acqua da tutte le parti, perché la pista e il cronometro raccontano un’altra storia. In questo primo “stint” di mondiale la migliore coppia per costanza di rendimento è quella Mercedes, con zero ritiri e il 92% dei piazzamenti in zona punti. Il poco considerato scudiero Red Bull, Sergio Perez, ha all’attivo una pole position e una vittoria, per non parlare del servigio reso al compagno di squadra quando era in testa al Gran Premio di Spagna.
Nello stesso intervallo di tempo, Carlos Sainz ha avuto tempo di analizzare la ghiaia di Melbourne, Imola e Barcellona. Nella gara di Miami, altra prima fila tutta rossa, ha lasciato aperto un portone a Max Verstappen che ha ringraziato, ha accesso i post bruciatori della sua RB18 e ha superato Charles dopo nove tornate. Forse è tempo di guardare in faccia alla realtà con la medesima crudezza del Drake nei confronti di Gilles, pena vedere sfumare obiettivi alla portata in favore di illogici individualismi.
Quando un pilota fa cinque pole su sette macinando il maggior numero di km in testa e si ritrova la “miseria” di due soli successi, si è in presenza di un grosso problema gestionale. La solfa di dover imparare dai propri errori è ormai inascoltabile, specie se proferita da chi vive nel mondo della F1 da oltre venti anni. Per non parlare del reclamo per il passaggio del duo Red Bull sulla striscia gialla nell’outlap, effettuato fuori tempo massimo senza alcuna possibilità di successo.
I bravi ragazzi inevitabilmente soccombono in un mondo di squali, sia dal punto di vista sportivo che politico. Le dichiarazioni indulgenti di Mattia Binotto verso il proprio team, alla luce dei marchiani errori strategici, sono figli di una nuova vocazione olimpica della storica scuderia di Maranello, secondo cui l’importante non è vincere, ma partecipare con spirito vincente?
Essere Ferrari deve ritornare ad essere sinonimo di eccellenza in pista. Non un semplice slogan del brand più conosciuto al mondo. Essere Ferrari significa prendere scelte dolorose nel bene supremo del team. Essere Ferrari significa rendere orgogliosi un popolo che, probabilmente, non potrà mai acquistare uno dei gioielli della factory di Maranello, ma che per la scuderia italiana gioisce e piange davanti alla tv o in una tribuna per quel senso di appartenenza unico al mondo.
Autore: Roberto Cecere – @robertofunoat
Foto: Scuderia Ferrari