La “manita” della Red Bull in F1 nelle ultime cinque tappe del mondiale è stata un duro colpo per gli uomini e le donne di Maranello. Se la striscia di vittorie iniziata proprio in casa Ferrari fosse figlia della sola superiorità tecnica dell’ultima creatura di Adrian Newey, il verdetto della pista potrebbe essere accettato. Anche se a malincuore.
Nella realtà dei fatti, però, il portentoso recupero di Max Verstappen è frutto di evidenti errori strategici commessi dalla Scuderia Ferrari sia in pista che nello schedule degli sviluppi alla power unit 066/7. Lo scrivente non ha mai apprezzato gli ingegneri del lunedì perché, grazie al cielo, la F1 è una categoria in cui l’errore umano rappresenta, a tutti i livelli, la variabile in grado di sovvertire le sofisticate simulazioni basate su modelli matematici ormai imperanti nella massima categoria del motorsport.
A questo è necessario sottolineare un fatto che, purtroppo, nella storia del Cavallino Rampante continua a manifestarsi ciclicamente. Si tratta dei periodi di scarsa competitività interrotti da “ere” di successi.
Per i ferraristi di lungo corso, l’attuale stato del team è un deja vu di tante analoghe criticità già abbondantemente vissute. Basti pensare che il pluridecorato Jean Todt, prima di raccogliere i frutti del suo abile operato, ha dovuto impiegare diversi anni prima di creare una struttura tecnica in grado di esaltare le doti di Michael Schumacher.
La recente storia della F1 ci ha insegnato che i trionfi in pista rappresentano la logica conseguenza di tre fattori: l’ossessiva ricerca del successo da parte della proprietà/CDA, il carisma del top management e il livello di eccellenza dei responsabili tecnici.
Nell’era Ferrari di inizio millennio tali valori erano perfettamente espressi dall’avvocato Gianni Agnelli, dal presidente Luca Montezemolo e dall’equipe capitanata dall’ex presidente della massima categoria che poteva avvalersi di figure del calibro di Ross Brawn, Rory Byrne e Gilles Simon.
L’attuale team principal della Ferrari, Mattia Binotto, ha ormai le spalle larghe per affrontare questa nuova tempesta dopo un biennio di dolorose mortificazioni sportive. Nonostante il tecnico di origine svizzeara non sia il prototipo del manager carismatico, è giunto il momento di riproporre uno degli assiomi della gestione Montezemolo: la stabilità dinamica.
La stabilità dinamica era il paradigma secondo il quale l’ex presidente della rossa riteneva inamovibili determinate figure apicali di grande spessore tecnico-manageriale, riservandosi la possibilità di integrare nuovi profili nell’ambito della struttura organizzativa della GES.
Attualizzando il concetto, non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca ma accordare fiducia a un gruppo di lavoro che è comunque riuscito a sfornare il progetto tecnico più competitivo delle nuove wing-car. In una recente intervista Cesare Fiorio, direttore sportivo della Ferrari dal 1989 al 1991, rilasciata alla web (rossomotori.it), ha dichiarato di credere fermamente nelle capacità dell’ingegnere occhialuto e che la sua posizione non sia assolutamente in bilico:
“Non credo assolutamente che il suo ruolo sia a rischio e spero vivamente che non lo sia. Binotto ha dato un impulso alla macchina veramente incredibile, per cui è molto meglio avere una vettura competitiva sapendo che l’affidabilità verrà ritrovata, anziché averne una affidabile incapace di competere con gli avversari”.
Porprio il manager piemontese ha pagato a caro prezzo l’assenza di una presidenza che tutelasse il suo operato. Il “siluramento” al termine della fallimentare stagione 1991 fu la conseguenza del pessimo rapporto con l’allora presidente del team di Maranello Piero Fusaro. Questi frammenti di storia Ferrari sono l’inequivocabile testimonianza del ruolo centrale della presidenza nell’economia dei risultati sportivi.
Luca Cordero di Montezemolo fu uno scudo impenetrabile per le feroci critiche verso l’operato di Jean Todt e soprattutto verso le legittime aspettative del gruppo FIAT a fronte degli enormi investimenti sostenuti che non potevano essere giustificati dalle saltuarie vittorie del biennio 1994/1995 (Hockenheim 1994 e Montreal 1995). Viceversa, Piero Fusaro, non seppe dare stabilità e protezione ad un team che aveva sfiorato il titolo mondiale con Alain Prost nella stagione 1990.
Gli ingenti investimenti sostenuti dal gruppo FIAT per ridare lustro a un scuderia alla di leggendario era rimasto solo il nome, furono la prova tangibile della ossessiva necessità di riportare la Ferrari nell’elite della F1.
Ancor prima del budget cap, la ripartizione degli introiti nella massima categoria ha garantito alla scuderia di Maranello il completo auto-finaziamento della gestione sportiva, anche grazie al generoso surplus economico in qualità di team storico.
In questo scenario di autogestione quali sono i razionali per giudicare l’operato del reparto corse Ferrari? A ben vedere non esiste una persona fisica a cui rendere conto, almeno dal punto di vista finanziario. Un Giovanni Agnelli che esigeva risultati a fronte di investimenti per milioni di dollari, a partire dal lauto ingaggio del sette volte campione del mondo di Kerpen.
Il nipote dell’avvocato, John Philip Jacob Elkann, catapultato nel mondo Ferrari a valle della tragica scomparsa di Sergio Marchionne, stenta a dare un vero imprinting alla sua carica di presidente.
Il crescente fatturato delle vetture stradali dimostra anno dopo anno che non c’è alcun riflesso sulle vendite rispetto alle alterne fortune in pista della storica scuderia italiana, nonostante 14 lunghissimi anni di digiuno iridato.
La speranza consiste in uno scenario dove le future fortune della rossa non siano mortificate da un cortocircuito tra una presidenza per la quale la vittoria è un nice to have e un reparto corse che, dall’alto della propria autogestione economica, non recepisca, qualora esistesse, la voce del padrone…
Autore: Roberto Cecere – @robertofunoat
Foto: Scuderia Ferrari