Formula 1

F1: il modello di business stabilisce il futuro della categoria

L’idea di poter aprire la porta della F1 ad altri team ha sempre spaventato le attuali dieci scuderie. L’élite che costituisce la categoria regina del motorsport sembra infatti impaurita all’idea di poter aggiungere un’undicesima squadra. Il problema, come spesso accade in questo sport, non è ovviamente legato ad un avversario in più da battere. Va piuttosto ricercato nei guadagni che ogni squadrar riceve.

Il Patto della Concordia sancisce i dividendi, ovvero i soldi che entrano nelle tasche delle scuderie. Una cifra che andrebbe a ridursi con l’ipotesi di un ulteriore squadra, soprattutto nel momento in cui il nuovo entrato non venga considerato come valore aggiunto. È proprio questo il caso che coinvolge la Andretti Global, da mesi alla porta del Circus bussando per un posto. Una speranza che sembra affievolirsi sempre più.


Fronte unito in F1: Porsche sì, Andretti no

Negli anni la F1 ha subìto molti cambiamenti. Non solo a livello tecnico ma anche e soprattutto geografico. Il Circus si è infatti allontanato dalla sua culla nativa europea, espandendosi in quelle parti del mondo pronte a sborsa un valore economico non trascurabile. I paesi petroliferi hanno così acquisto sempre più spazio, così come gli Stati Uniti, con l’ingresso in calendario di Las Vegas e la recente candidatura di New York, pronta ad ospitare una gara nella Grande Mela.

L’attrazione degli States nei confronti della massima categoria non si è però limitata alle sole corse e al moltissimo pubblico pronto ad accorrere agli eventi; da mesi, infatti, Mario Andretti e il figlio Michael chiedono un posto all’interno del Circus. Un risultato sino ad ora inespresso che non sembra destinato ad avere un futuro.

l’italo statunitense Mario Andretti, campione del mondo di Formula Uno nella stagione 1978

Il problema? Economico, come spesso accade; avere un team in più porta inevitabilmente ad una fetta minore di quei guadagni stabiliti dal Patto della Concordia. Una paura che, diversamente da quanto accade in altre discussioni, sembra aver unito quasi tutti i team.

Porsche e Audi vanno bene, Andretti no. Un verdetto che Toto Wolff ha ben spiegato, portando all’attenzione la differenza tra l’ingresso di un motorista e quello di un semplice squadra. Una valutazione che non vede solo d’accordo le scuderie top, ovvero Mercedes, Red Bull e Ferrari, ma che ha trovato eco anche tra chi si trova ad un livello minore.

“Aprire la porta ad un team che fa le stesse cose degli altri non è un valore aggiunto”. Con queste parole Vasseur gela ogni speranza di poter vedere una squadra in più. Niente valore aggiunto, niente F1. Una motivazione che nasconde la più grande paura dei protagonisti di questo sport, ovvero quella di intaccare un modello di business funzionante.


F1: poco sport e troppo business?

Non è un segreto che lo sport è spesso visto come un’enorme macchina legata al denaro. Un investimento economico che può generare immensi guadagni per chi decide di intraprendere tale direzione. Succede, per esempio, anche in Italia, dove il calcio risulta tra le voci più alte nel mercato economico del Bel Paese.

La F1, di conseguenza, non è rimasta esente da tale modello di pensiero. L’accrescimento dell’interesse nei confronti di questo sport ha così portato ad esplorare nuovi orizzonti, così come ha reso sempre più elitario uno sport che aperto a tutti non lo è mai stato.

La paura di poter perdere quei guadagni intaccando un business che appare ad oggi perfetto porta così i team di F1 in unico angolo del grande ring. Ecco dunque che quando l’argomento principale diventa il denaro, le differenza tra i top team e tutti gli altri svaniscono, creando quel solido muro che difficilmente può essere abbattuto. Un pensiero che trova conferma nel caso Andretti, pronto a sborsare l’esorbitante cifra richiesta dal Circus, ma che le scuderie presenti non vogliono.

Tanto business e poco sport per una F1 che sembra non voler cambiare di fronte a quelle novità da cui non può trarre un vantaggio economico. Una chiusura netta, dettata dalla sola paura e nascosta dietro a motivazioni nelle quali forse non si crede davvero. La competizione in pista, unico vero DNA della F1, si trasforma così in una lotta di diverso tipo, lontanato dalle curve dei tracciati e dalle battaglie che i piloti mettono in atto nel weekend di gara.

La Ferrari di Carlos Sainz precede la Mercedes di Lewis Hamilton e la Red Bull di Sergio Perez

Il problema infatti non riguarda un possibile avversario in più da battere; l’aggiunta di un rivale spaventa solo le tasche di chi questo modello di business ha contribuito a costruirlo. Una direzione intrapresa volta a non prendere in considerazione nuovi ingressi, ma solo quelle novità che col tempo possano accrescere quella fetta di torta a cui nessuno è disposto a rinunciare.

Una strada puramente economica che la F1 ha scelto di prendere, dimenticandosi del suo vero scopo, ovvero quello di essere uno sport. Un gioco comandato dalle regole e non dal denaro. Sport che oggi sembra allontanarsi dalla pista, spostandosi verso un tavolo di discussione dove, ad ogni chiusura, si perde quella piccola parte di DNA che caratterizza la F1


Autore: Chiara Zambelli – @chiarafunoat

Foto: F1

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Chiara Zambelli