Fin troppo spesso quest’anno in F1 si è parlato di quanto la differenza tra i team in lotta fosse talvolta basata su minuzie o su sostanziali scelte decisionali che in momenti cruciali non sopraggiungevano perentorie e tempestive, come invece sarebbe dovuto essere.
Ed alla fine del campionato ciò che fa la differenza in termini di punti è anche e soprattutto questo: avere una vettura performante “purtroppo” non basta per portare a termine un risultato di vittoria decisiva. Non è dunque sufficiente neanche per il pilota stesso svolgere una gara al meglio delle sue possibilità: dare il massimo in termini di performance non è necessariamente tutto, poiché ci sarà sempre qualcosa dal back che avrebbe potuto essere gestito diversamente, o quantomeno in maniera ottimale.
Questa è la storia della Scuderia Ferrari, capitolo 2022: la nascita di una promettente F1-75, nettamente la migliore delle ultime annate, non ha realizzato il cosiddetto “sogno rosso” che in tanti agognano dal lontano 2007 (2008 per il costruttori).
Mai come quest’anno è apparsa evidente la discrepanza con gli altri team che di consueto siamo abituati a vedere sfidarsi a colpi di sorpassi e vittorie: tra Red Bull e Mercedes infatti, per quanto naturalmente nemiche giurate, ci sono dei palesi punti in comune che le hanno rese due scuderie punte di diamante del Circus, con evidenti caratteristiche che al contrario la Ferrari non ha.
Si è parlato tanto di difficoltà di gestione e forse anche di poca lucidità e/o prontezza nel prendere decisioni giuste in momenti concitati, ed effettivamente il tallone d’Achille del team rosso ad oggi risulta a tutti gli effetti proprio questo.
La sensazione è quella di una squadra in cui c’è sempre una certa titubanza nell’imporre in maniera decisiva un pensiero, una scelta, e portarlo avanti con caparbietà perché si è certi del buon risultato finale: sembra quasi piuttosto mancanza di quella verve “spericolata” che porta il team a prendersi dei rischi, assumendosi poi tutte le responsabilità del caso.
Se invece ci si concentrasse sull’operato del team di Milton Keynes e quello di Stoccarda, si noterebbe in maniera lampante quanto invece questo tratto rappresenti proprio il terreno fertile di entrambi: quasi un senso di audace scaltrezza decisionale, che si rivela l’elemento chiave per essere una squadra vincente e consolidata.
Molto probabilmente ciò che manca in casa Ferrari per fare questo passo in avanti, è un “dettaglio” che affonda le sue radici in maniera profonda nel passato della scuderia stessa: corsi e ricorsi storici della Rossa hanno ampiamente dimostrato che ogni qualvolta le cose non siano andate per il verso giusto, sono sempre state fatte cadere alcune teste all’interno della gestione del team stesso.
È accaduto per il pre attuale team principal Mattia Binotto, cioè Maurizio Arrivabene, ed a sua volta si era verificato anche per il suo predecessore Marco Mattiacci, persino poi per Sergio Marchionne (sebbene poi come classico “contentino” si sarebbe occupato dell’allora Sauber), giungendo finanche a Stefano Domenicali.
Un modus operandi ancorato alla scuderia praticamente da sempre, e che evidentemente porta coloro che ne fanno parte ad avere anche una sorta di timore reverenziale nei confronti dei cosiddetti “piani alti”.
Tale schema dunque, sembra quasi attribuire un potere effimero a coloro che invece dovrebbero rappresentarne la supremazia effettiva: nella fattispecie della figura del team principal, sebbene tale ruolo dovrebbe rappresentare il leader dell’intera squadra, di fatto poi in casa Ferrari è colui che determina tantissime dinamiche, ma se c’è poi qualcosa che non quadra, non ci si pensa due volte ad intraprendere percorsi poco ortodossi per sostituirlo.
E tale meccanismo influenza anche i tifosi stessi: tantissimi gli adesivi trovati in giro per Monza in occasione del gran premio d’Italia con il volto di Mattia cancellato con una x rossa, al monito di “#Binottout”.
Ed ora dunque, una semplice domanda: in casa Red Bull o Mercedes si sono mai profilati simili scenari? Assolutamente no. Christian Horner e Toto Wolff rappresentano la perfetta antitesi di tali schemi: il primo fa parte del team praticamente dal suo esordio, il secondo non solo è approdato lì insieme al suo pupillo Lewis Hamilton, ma nel tempo ha anche acquistato i 33% delle azioni, acquisendone parte della proprietà (insieme a Ineos e Daimler).
Entrambi i protagonisti della F1 rappresentano anche agli occhi del pubblico (non solo dei tifosi) due figure autorevoli ed autoritarie, senza alcuna incombenza dall’alto che potrebbe pregiudicarne l’operato o metterne in discussione le decisioni; che poi difficilmente ne sbaglino qualcuna, questo è un altro discorso…
Ma il loro è quindi un modus operandi corretto, e d’altronde sono gli stessi esiti vittoriosi a parlare per loro: oltre la contesa questione Abu Dhabi 2021 (in cui sono stati entrambi le potenze in lotta praticamente fino all’ultimo minuto di campionato), il modo di reagire ad alcune evenienze, le decisioni prese, finanche il modo di presentarsi agli altri, è sinonimo di un atteggiamento pregno di autorevolezza.
Forse il back Ferrari in vista della stagione 2023 potrebbe cercare di prendere come modello anche questi esempi ispirandosi a tali modi di agire: difficile pensare che un modello operativo consolidato in tanti anni possa essere spazzato via in qualche mese col passaggio da una stagione all’altra, ma probabilmente anche semplicemente mettere a fuoco tale consapevolezza potrebbe aiutare.
F1 Autore: Silvia Napoletano – @silvianap13
Foto: F1, Scuderia Ferrari, Mercedes AMG, Oracle Red Bull Racing