“Con il dispiacere che ciò comporta, ho deciso di concludere la mia collaborazione con Ferrari F1. Lascio un’azienda che amo, della quale faccio parte da 28 anni, con la serenità che viene dalla convinzione di aver compiuto ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Lascio una squadra unita e in crescita. Una squadra forte, pronta, ne sono certo, per ottenere i massimi traguardi, alla quale auguro ogni bene per il futuro. Credo sia giusto compiere questo passo, per quanto sia stata per me una decisione difficile. Ringrazio tutte le persone della Gestione Sportiva che hanno condiviso con me questo percorso, fatto di difficoltà ma anche di grandi soddisfazioni“.
Con queste parole Mattia Binotto ha concluso una storia professionale e umana lunghissima. Un comunicato onesto, che trasuda passione, spirito di abnegazione e amore. Perché possiamo sperticarci in ogni analisi e valutazione critica, ma non potremo mai negare il legame ferreo che l’ingegnere nativo di Losanna ha avuto con una scuderia che è stata prima mamma e poi palestra e guida professionale. Un messaggio limpido, quindi, che stride con le modalità espressive che l’ex numero uno della GES ha mantenuto nel corso dell’anno e che potrebbero essere una delle motivazioni che sottendono alla rottura di un rapporto che pareva inscalfibile.
Quando un matrimonio termina le colpe non insistono mai da un solo lato. Non è questa la sede per affrontare la questione che comporterebbe l’utilizzo di litri di inchiostro virtuale. Questo scritto intende evidenziare i difetti comunicativi di cui si è reso protagonista l’ex capo delle cose sportive della franchigia di Maranello. Perché sbagliare è lecito ed umano. Meno saggio è perdersi in argomentazioni che la storia ha smentito in maniera piuttosto evidente. Analizziamole punto per punto.
Obiettivi stagionali repentinamente mutati. “Di sicuro questa è una monoposto in cui abbiamo messo il meglio di noi, lo sanno Charles e Carlos, lo sappiamo tutti noi. […] Questa è una Ferrari che voglio definire coraggiosa. Abbiamo voluto interpretare, è evidente, il nuovo regolamento in modo diverso. […] Ora dobbiamo misurarci con gli avversari, è la sfida più bella e che rende il nostro lavoro così affascinante. Con la F1-75 vogliamo lottare in pista a ogni gara e ad ogni gran premio, metro su metro con i nostri avversari, anche per gli obiettivi più alti. Abbiamo una responsabilità verso la nostra azienda e i nostri partner e soprattutto vorrei che fosse la monoposto che consentirà ai nostri tifosi e a noi di essere orgogliosi della nostra Ferrari“.
Quello su riportato è un estratto delle parole che Mattia Binotto aveva proferito il 17 febbraio, il giorno in cui sono caduti i veli dalla F1-75, l’arma che doveva provare a riportare i titoli in Italia. Di quella vettura che doveva lottare su ogni pista si sono perse le tracce dal Gp di Francia in poi. Mai capace di tenere testa alla Red Bull, sovente superata in prestazioni dalla balbettante Mercedes W13, la creatura di David Sanchez si è pesantemente ed irreversibilmente involuta col caldo estivo. E con questo cambio di passo anche il vento mediatico ha cambiato direzione e registro.
Il Binotto sicuro di sé della prima fase di campionato ha preso a parlare nuovamente di team giovane, di analisi dati e di crescita da compiersi in un arco temporale più dilatato per giungere all’agognata vittoria del titolo. Il peccato originale, che è chiaro abbia scontato, è quello di aver puntato tutte le fiches sul nuovo quadro regolamentare imposto dalla FIA. L’azzardo non ha pagato e l’ingegnere ha ammesso che il 2023 sarebbe stato finalmente l’anno buono. Una posticipazione di target che a Benedetto Vigna, AD della Ferrari, non è piaciuta. Cosa velatamente rimarcata in occasione della presentazione delle trimestrale rossa.
Gestione dell’affidabilità del propulsore. I problemi di solidità sono deflagrati in Spagna, mentre Charles Leclerc comandava in scioltezza le operazioni e Max Verstappen arrancava in una gara condita da errori che potevano essere ben più gravi a causa di un duello rusticano con George Russell che approfittava del DRS bizzoso della RB18 n°1. Dopo il clamoroso ritiro costato 25 punti sonanti, Binotto aveva minimizzato. E forse è stato anche corretto farlo per tenere alto il morale della ciurma. Il problema è che poche gare dopo, a Baku, il difetto tecnico è raddoppiato facendo marcare un doppio zero alla Ferrari con Red Bull che godeva ancora una volta.
“I motori di Charles Leclerc è arrivato oggi a Maranello e una valutazione iniziale sarà completata in serata. I componenti idraulici della macchina di Carlos Sainz sono già stati esaminati. Per il Canada sarà messa in atto una soluzione a breve termine, mentre è già in corso il lavoro su soluzioni in prospettiva“. A Montreal la Ferrari convince ma non vince. Poi arrivano altri stop (Austria, con Sainz) e soprattutto una serie di sostituzioni di parti del motore che costringono i piloti a penalizzati arretramenti in griglia.
Ma non solo, a fine anno si capirà che i propulsori del Cavallino Rampante hanno girato per lunghi tratti sotto il loro effettivo potenziale per evitare atre rotture. Chilometraggi bassi e mappature blande usate come una spoletta di sicurezza col fine di evitare l’esplosione della granata. Che nella fattispecie era il V6 turbo-ibrido. Quindi, quelle short term solution tanto sbandierate, altro non sono state che un giro al ribasso dei manettini della potenza e una serie di cambi compulsivi di componenti della power unit. Pochissima e deludentissima roba. Forse sarebbe stato meglio ammettere le difficoltà derivanti da un politica votata al recupero prestazionale dopo anni di purgatorio post accordo riservato con la FIA.
Intenti vincenti mortificati dai fatti. “Proveremo a vincerle tutte“. Mai esternazione fu più disastrosa. Mentre Charles Leclerc rimuginava su una gara gettata alle ortiche per un eccesso di foga, un errore non forzato che ha spianato la vittoria del Gran Premio di Francia a Max Verstappen, Binotto, nel tentativo di non deprimere ulteriormente l’ambiente, si produsse in un’uscita che è passata agli annali per essere l’opposto dell’immagine di profezia autoavverantesi. Un autogol a difesa schierata e senza gli attaccanti avversari a pressare.
Ne sono seguite, dopo l’annuncio anti-divinatorio, nove vittorie Red Bull (8 per Verstappen, una per Perez) e una per Mercedes che ha completato un’inattesa doppietta nel weekend paulista. Ferrari non solo torna con un sacco pieno di pive ma, peggio ancora, con la consapevolezza di non esser mai stata in partita per giocarsela. Forse nemmeno in quel di Budapest quando il muretto box si prodigò in un’altra strategia devastante per i sogni di gloria di Leclerc.
Nei mesi che sono succeduti all’appuntamento transalpino la Scuderia ha funto da spettatrice non pagante. La cosa è stata determinata da una campagna di sviluppi della vettura praticamente inesistente. “Non abbiamo compromesso lo sviluppo della vettura del prossimo anno. Ma certamente abbiamo deciso di fermare quello attuale perché bisognava affrontare il costo necessario produrre le parti per poi portarle in pista. Fermare il progresso della macchina non è stata una scelta; abbiamo semplicemente finito i soldi a nostra disposizione. Eravamo al limite. Non avevamo più l’opportunità di sviluppare l’auto, quindi siamo semplicemente rimasti dove eravamo“. Questa l’ammissione del dirigente elvetico.
Viene da chiedersi perché Red Bull, Mercedes ma anche e soprattutto Alpine, McLaren, Williams ed Aston Martin (queste ultime due hanno letteralmente rivoluzionato le proprie monoposto) abbiano saputo commisurare le spese ai necessari update che ogni progetto deve ricevere nel dipanarsi del campionato per progredire o, come nel caso della F1-75, per mantenere lo status di monoposto da battere. Cosa piuttosto evidente nella prima metà di stagione e non sempre tramutatasi in punti a causa anche della gestione assai deficitaria dell’ambito strategico. Al quale arriviamo celermente.
Difesa strenue – ed insensata – degli strateghi. Il solo titolo di questo punto basterebbe per un capo d’imputazione. La stagione della Ferrari è stata costellata da così tante topiche, gradi e piccole, da offuscare quegli sporadici episodi (come Abu Dhabi) in cui il muretto ha fatto la differenza in positivo. La lista degli errori è lunga e pingue e non è questa la sede per ripercorrere minuziosamente ogni singolo passaggio a vuoto. Fatto sta che Maranello ha dilapidato un bottino di punti enorme, specie nelle prima fase dell’annata. Sarebbero bastati per vincere il titolo? Probabilmente no, ma di certo avrebbero messo pressione ai rivali. E, si sa, operare sotto stress non è mai semplice.
Red Bull ha invece avuto strada spianata anche quando la RB18 era stanca e pesante. E’ potuta restare in scia quando era in difficoltà per poi sferrare il colpo mortifero nell’attimo in cui gli sviluppi – e la cura dimagrante – hanno cominciato a dare i frutti sperati. Mai s’è levata una critica dall’interno, raramente si è fatto ammenda. Anche dopo il pasticcio che a Silverstone ha tolto una vittoria semplice a Leclerc. Episodio, questo, da cui sarebbero scaturite le prime incrinature nel rapporto con Binotto che ha scelto, forse per troppo spirito aziendalistico, di proteggere gli strateghi e di provare a mantenere saldi gli equilibri tra i piloti. Con risultati scarsi.
Non è un mistero che la presidenza rossa voglia un cambio di passo anche nel comparto tattico. La posizione di Inaki Rueda è più traballante che mai. Su questo fronte potrebbero esserci sviluppi nei prossimi giorni. Il repulisti voluto da John Elkann non dovrebbe limitarsi alla sola testa della GES.
Rapporto coi media non sempre impostato correttamente. Nella stagione della delusione mondiale un altro aspetto non ha funzionato correttamente: quello del rapporto con chi fa informazione. Nulla di sistemico, sgombriamo il campo da polemiche che non albergano nella nostra redazione, ma è un episodio singolo che può essere interpretato come la cartina di tornasole di una maniera d’agire assolutamente migliorabile. Binotto, a seguito di critiche lecite mosse da parte di chi detiene i diritti di trasmissione della Formula Uno in Italia, si è prodotto in un silenzio stampa irragionevole. E’ servita una mediazione tra le parti per riportare il barometro sul sereno.
Il clima di tensione è successivamente rientrato ma resta la (immaginiamo) richiesta di evitare scomode domande. Un atteggiamento che non si confà al dovere di informare e al diritto di un cronista di porre quesiti non concordati e magari fastidiosi, pungolanti. Anche questo aspetto ha probabilmente segnato il rapporto con una dirigenza che non può legare il proprio glorioso nome a baruffe di palazzo non compatibili al blasone ferrarista. Insomma, come descritto in questi cinque punti, la gestione Binotto della sfera pubblica non passerà alla storia come un modello vincente e replicabile.
Per chiudere, va detto che Ferrari non è sollevata da responsabilità mediatiche perché ha pedissequamente avallato le strategie comunicative del proprio direttore. Ed è normale che i capi debbano rispondere delle azioni dei sottoposti. John Elkann, poco presente e mai apparentemente preso della vicende del Cavallino Rampante, ha giocato il suo ruolo in questo scenario comunicativo sbilenco, mutevole, incoerente.
La rinascita che tutti auspicano deve necessariamente passare anche da un deciso cambio di paradigma comunicativo. Non basta un social manager più giovanile e in stile Mercedes (team che ha fatto scuola sulla materia); serve impostare un linea votata alla piena e totale trasparenza, cosa che è mancata nell’esperienza da team principal di Mattia Binotto. Molti, a distanza di anni, si interrogano ancora su quell’accordo riservato tra Ferrari e FIA che fu l’emblema di un procedere torbido. A volte, nella vita e nel lavoro, è meglio una dolorosissima verità piuttosto che dolci bugie. Che, come tali, hanno gambe ed esistenza brevissime.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: F1TV, Scuderia Ferrari