Prima dell’avvento dei propulsori turbo ibridi in F1, il rapporto tra team e fornitori dei propulsori era molto chiaro. Al netto della Scuderia Ferrari, che ha sempre prodotto l’intera monoposto a Maranello, i famigerati garagisti, per dirla alla Enzo Ferrari, stipulavano partnership con i principali costruttori di propulsori aspirati: Ford, Hart, Peugeot, Mercedes, Toyota, Renault, BMW, Yamaha e tanti altri ancora.
Alcuni motoristi accettarono la sfida di assumere le sembianze di una squadra ufficiale, nonostante facessero ricorso a strutture preesistenti come nel caso di BMW e Renault, nata sulle ceneri del team Benetton. La stessa Mercedes, intesa come headquarter, è il prodotto finale delle successive acquisizioni dalla scuderia fondata da Ken Tyrrell.
Nonostante fosse ben chiaro a tutti che la quasi totalità dei team fosse collocata geograficamente nella “aero Valley” del Regno Unito, sulla proprietà intellettuale dei propulsori non c’erano mai stati dubbi. La rivoluzione turbo ibrida ha convinto diversi colossi dell’automotive ad abbandonare il Circus, al punto che nel 2014 i motoristi impegnati ufficialmente in F1 erano solamente tre: Mercedes, Ferrari e Renault.
L’anno seguente il parterre è stato ampliato dall’ingresso di Honda, la cui collaborazione con McLaren è risultata a dir poco fallimentare. Sino ad oggi il numero di costruttori di unità di potenza è rimasto inalterato. La Federazione e Liberty Media, oramai da vari anni, stanno operando per aumentare l’attrattività del campionato.
In tal senso, il regolamento tecnico delle PU di seconda generazione rappresenta l’estremo tentativo di convincere nuovi “player” nel settore dell’automotive. Sinora l’unica adesione è stata quella di Audi che sin dalle premesse sembra voler onorare lo spirito del nuovo impianto normativo alla lettera, ovvero realizzare propulsori made in Germany dalla A alla Z.
Tutte le nuove manifestazioni di interesse o partnership che sono state ufficializzate in questi giorni destano perplessità su un concetto principale: Chi fa cosa. Prendiamo l’esempio Red Bull. Sino al 2021 non vi era alcun dubbio che le unità di potenza fossero fabbricate da Honda. Al termine della stagione, al culmine del successo, il colosso nipponico lascia ufficialmente il Circus pur continuando a fornire i propulsori al team anglo austriaco.
Nel 2022, la neonata divisione Red Bull Powertrains opera un massiccio insourcing di personale ai danni di Mercedes e continua ad avvalersi del supporto di Racing Honda (HRC, nda). Di fatto l’area powertrain di Milton Keynes è una base operativa di F1 per la gestione dei propulsori che vengono tuttora prodotti in Giappone. Un hub che rende molto più snelli gli aspetti logistici in un calendario sempre più fitto.
Del resto lo stesso Christian Horner ha precisato come RPBT ha semplicemente utilizzato la proprietà intellettuale mai ceduta dal colosso nipponico al team campione del mondo. Fattore decisivo che ha consentito di poter aderire al regolamento tecnico delle power unit in qualità di nuovo costruttore. In un mondo ideale sarebbe bello credere che il know how acquisito dagli ingegneri Red Bull possa essere ininfluente nel prossimo futuro.
Le problematiche sulle competenze maturate dalla divisione Powertrains sul propulsore Honda ricordano in qualche modo il gardening leave. Da diversi anni, infatti, la Federazione Internazionale ha imposto che i tecnici delle scuderie debbano osservare un periodo di inattività della durata di sei mesi prima di trasferirsi in un altro team. La filosofia era quella di non fornire un immediato vantaggio alla concorrenza.
Nel tempo la normativa ha dimostrato ampiamente di essere inadeguata, in quanto l’expertise degli ingegneri non può essere rimosso in soli sei mesi. Nonostante l’impossibilità di trasferire materiale protetto da proprietà intellettuale verso la nuova meta, i tecnici hanno le conoscenze e il background per portare in dote numerose informazioni annesse al proprio precedente impiego.
Per Honda sarà complesso tutelare i segreti della propria unità di potenza. Le recenti dichiarazioni di Horner cercano di spegnere sul nascere ogni tipo di illazione:
“Abbiamo un accordo e un ottimo rapporto con Honda sino alla fine del 2025. Non c’è alcun incrocio di proprietà intellettuale: abbiamo un motore omologato, quindi è di fatto congelato. Tutti i motori Honda sono prodotti in Giappone e tutto ciò che riguarda la Red Bull Powertrains è molto concentrato sul 2026. C’è una muraglia cinese tra le due attività, ma ovviamente lavoreremo con Honda nei prossimi anni per ottenere i migliori risultati possibili.”
“Il loro impegno è totale e il rapporto si concluderà alla fine del 2025. Honda fornisce il motore, è proprietaria di tutti i diritti di proprietà intellettuale, quindi non possiamo vedere l’interno del motore o cose del genere. Faremo del nostro meglio per cercare di difendere e ottenere ulteriori vittorie in gara e campionati“.
Un’abile affermazione, quella di Christian, mirata a rassicurare i partner del presente che pur avendo aderito al nuovo regolamento delle power unit 2026-2030 non hanno ancora deciso di proseguire la loro esperienza in F1. Tuttavia non è parso troppo elegante annunciare la partnership con Ford in occasione della presentazione della livrea 2023 a New York con l’ad di Ford (Jim Farley, nda) sul palco.
La lealtà nella cultura giapponese è un valore fondamentale, che Honda ha espresso verso Red Bull continuando a fornire le unità di potenza, sacrificando gli onori di una stagione da record in forma ufficiale. L’accordo con Ford potrebbe creare una crepa nei rapporti con Red Bull, che fino a qualche settimana fa sembrava aver intrapreso la strada dell’autarchia anche nel comparto motoristico. Il prossimo triennio chiarirà se entrambe le parti in causa sapranno onorare l’alleanza in modo corretto.
Autore: Roberto Cecere – @robertofunoat
Immagini: Audi – Oracle Red Bull Racing
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Non capisco cosa centrasse la presenza di Ford se di fatto il prossimo campionato sarà ancora con Honda anche se non in piano. Red Bull ha sbagliato tantissimo con questo tipo di presentazione.