In F1, la stabilità in un gruppo di lavoro è spesso sinonimo di successo. Specie se i componenti delle scuderie antepongono gli obiettivi comuni all’ambizione individuale. Il ciclo d’oro della Scuderia Ferrari di inizio millennio si basava sul paradigma coniato da Luca Cordero di Montezemolo: “stabilità dinamica” senza precludere l’innesto di figure professionali di spessore in un gruppo di lavoro collaudato.
Un concetto tuttora valido che consente di accrescere le competenze del singolo e facilitarne la crescita professionale. Il valzer dei team principal al quale abbiamo assistito durante dell’inverno ha evidenziato filosofie antitetiche. Andreas Seidl ha fatto le valige per approdare in Alfa Romeo. Al suo posto Andrea Stella.
Un grande riconoscimento sulle qualità dell’ingegnere di Orvieto e la conferma che la squadra di Woking preferisce valorizzare risorse interne. Medesima politica adottata quando Martin Whitmarsh raccolse il testimone da Ron Dennis nel 2009.
Il Cavallino Rampante, al contrario, ha deciso di affidare le chiavi del team a una figura esterna all’universo Ferrari. Indipendentemente dalle poche opzioni, la scelta del manager transalpino è significativa. La recente storia della rossa è indicativa in tal senso. Nei momenti di maggiore difficoltà, come ci insegna la storia, la dirigenza di Maranello ha deciso di affidare le sorti della scuderia a risorse esterne.
Jean Todt e Maurizio Arrivabene, nonostante i pregressi rapporti di partnership con Ferrari, sono scelte di rottura con il passato dettate dalla necessità di eliminare dinamiche organizzative non all’altezza. In qualsiasi contesto competitivo, in modo quasi subliminale, si creano legami di empatia o di riconoscenza che nel corso del tempo possono essere controproducenti per il risultato complessivo.
Tale stabilità in ruoli critici, basata su criteri di lunga militanza piuttosto che una valutazione oggettiva dei target raggiunti da una determinata area del team, non sempre funziona. Uno degli elementi che più tormenta il responsabile di una grande struttura organizzativa nel giudicare i propri collaboratori, di fatti, riguarda la necessità di separare l’aspetto umano da quello effettivo di rendimento.
Con ogni probabilità, se Vasseur avesse declinato la proposta della rossa, la scelta sarebbe ricaduta su una figura professionale esterna al mondo Ferrari. Al pari di quanto avvenuto in passato, l’obiettivo primario era quello di affidare le sorti della scuderia a un manager navigato, per evitare giudizi “avvelenati” dalle componenti relazionali di lungo termine.
Tale scenario non implica necessariamente un reset della struttura organizzativa. Semplicemente garantisce una “nuova visione critica” delle dinamiche all’interno della GES. Un contesto volto a eliminare difese d’ufficio malgrado gli errori marchiani e reiterarti commessi come accaduto durante la gestione Binotto.
La scelta di compattare il gruppo di lavoro durante le ultime stagioni, verosimilmente, ha fornito diversi alibi alle figure apicali del team. La scelta di Vasseur presta il fianco ad altre riflessioni. Nella squadra plasmata da Mattia non è stata individuata alcun individuo in grado di raccogliere il testimone dal manager italosvizzero.
Possiamo dunque ipotizzare che i vertici della Ferrari non hanno voluto responsabilizzare una figura interna dal background prettamente tecnico, magari attraverso una carica che richiedeva capacità manageriali molto più ampie di quelle acquisite nell’ambito di una divisione tecnica.
Il mandato dell’ex team principal del Cavallino Rampante è stato caratterizzato da diverse sconfitte politiche. Dal “Power Unit Gate” sino alla direttiva tecnica TD039. Elementi che hanno enormemente penalizzato i risultati sportivi della scuderia modenese. Se per Frederic Vasseur la Ferrari è il coronamento del proprio percorso professionale, per il Cavallino Rampante il francese è l’uomo indispensabile per massimizzare l’enorme potenziale dell’area tecnica della rossa.
Autore: Roberto Cecere – @robertofunoat
Immagini: Scuderia Ferrari