Pàthei màthos”, letteralmente “appreso nel dolore”. Helmut Marko. Una personalità importante nel mondo della F1, spesso bistrattato per la sua lingua “ruvida” e urticante. In prima fila alle soglie degli 82 anni si gusta un successo ottenuto in anni di sforzi e di sacrifici. Vita particolare la sua, messa in risalto dallo straordinario apporto alla “causa” Red Bull. Incontenibile e incontentabile, Marko pretende sempre molto, qualcuno dice troppo, dai suoi piloti. Di certo è convinto di sé e di tutto quanto il suo percorso. Non ha peli sulla lingua.
Dice quello che pensa, sempre. Lodevole, se non fosse per le bufere mediatiche alle quali spesso si ritrova esposto per colpa di un commento di troppo. Chi non ricorda le dichiarazioni in epoca Covid? Un altro esempio è la polemica sulle sue critiche al vetriolo Perez. Di certo Marko è un osso duro, ma è anche uno di quelli che, una volta trovato, non ti lasci sfuggire… ne sa qualcosa Christian Horner, che lo conobbe quando da lui andò a comprare un mezzo. Sicuramente un incontro molto fortunato. Ma chi sia Helmut Marko non si può spiegare tramite discorsi semplicistici.
Bisogna immergersi nella sua vita per poterla capire fino in fondo. Proviamoci. E’ il 2 luglio 1972. Ci troviamo in Francia, alla sesta tappa del campionato del mondo di F1. Un giovane Helmut Marko, ai tempi ventinovenne, si prepara a sfrecciare sulla pista di Clermont-Ferrand, alla ricerca della vittoria. L’atmosfera esuberante della F1 lo attrae particolarmente: quel campionato che sognava di correre da ragazzo insieme all’amico Jochen Rindt, dallo sfortunato destino, lo stesso con cui giocava a fare il pilota durante la notte, sfidandolo in gare clandestine.
Durante le quali Helmut finisce per procurare gravi danni alla vettura del padre e perde così la possibilità di un supporto economico nel mondo dei motori da parte sua. I sogni erano grandi, ma i due amici non si incrociano per una curva e una manciata di mesi. In ogni caso Marko ci arriva, alla F1, e lo fa stringendo il coltello tra i denti. Termina con buoni risultati gli studi in giurisprudenza e la sua passione per i motori lo porta a partecipare a diversi tipi di competizioni, passando per la Formula Vee, la Formula 3 e il campionato prototipi.
Poi, corre il campionato europeo Turismo, la coppa sudafricana, fino a raggiungere il podio alla 24 ore di Le Mans e in qualche altra competizione. La verità è che a lui piace correre, non importa dove, non importa quando. Correre per sopravvivere. Quando approda al massimo campionato, lo fa alla guida di una McLaren, in Germania, ma viene subito dopo ingaggiato dalla BRM, piacevolmente colpita dal talento del pilota austriaco. E’ una grande occasione. Marko, reduce da un buon ottavo posto nel Gran premio di Monaco, sa che può e deve dare il massimo.
Ed è questo che deve avere pensato, il pensiero di tutti i piloti prima di una gara, mani strette sul volante, sguardo fisso e concentrazione massima. A bordo della sua BRM P 160 dalla livrea rossa e bianca, e con un possibile contratto pendente con la Ferrari già in tasca, si sentiva invincibile. Il suo non è un mestiere per deboli di cuore. L’incidente è sempre in agguato, ma i piloti preferiscono occuparsene una volta svoltato l’angolo. Un passo alla volta, prima esserci, dove conta, poi provare a vincere. Il resto può attendere. Le luci si accendono, lentamente, una alla volta.
Poi si spengono di colpo. Partiti. Helmut se la cava bene, guida con sicurezza, è in quinta posizione, nono giro. L’adrenalina cresce. A un tratto, una pioggia di pietre sferza l’aria di fronte a lui, proveniente dalle ruote di Emerson Fittipaldi. Un dolore cieco, assordante. Una dannata pietra riesce a perforare il casco ed entra dritta nel suo occhio sinistro. C’è poco tempo per riflettere, ed è così difficile con quel dolore. Accosta a stento la macchina senza pensarci due volte, nel tentativo di non procurare altri danni. Poi, tutto buio. Cade preda di un sonno involontario al lato della pista.
A nulla servono i soccorsi, anzi, peggiorano la situazione. Il disinfettante che viene utilizzato non guarisce il suo occhio, non può, ma contribuisce a danneggiarlo irreparabilmente. Il circuito viene chiuso, giudicato troppo pericoloso per l’abitudine che concedeva ai piloti di tagliare le curve e rischiare la foratura o incidenti come questo per via del fondo stradale irregolare. Chissà che cosa si prova a essere un pilota di F1 che ha sacrificato gran parte della sua vita per raggiungere quel dannato e fondamentale obiettivo per poi vederlo sfumare da un letto di ospedale per colpa di una misera pietra.
L’ironia e la precarietà del genere umano…di certo sperava in un epilogo migliore, lui, che aveva sempre giocato con la vita, o meglio, per dirla con Thoreau: “il fatto è che non volevo vivere quella che non era una vita a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, succhiare tutto il midollo di essa”. Una fine l’aveva messa in conto anche lui, nonostante volesse tenerla lontana, era inevitabile, ma se proprio doveva essercene una, avrebbe sicuramente preferito che fosse in grande stile. Marko è costretto ad aspettare il giorno dopo per essere operato, ma è troppo tardi.
L’occhio viene sostituito con una protesi ed è inutile sperare di poter tornare in pista, è impossibile anche per gli standard medici molto poco rigidi dell’epoca. Tenendo conto soprattutto della concentrazione necessaria, della percezione visiva, e delle alte velocità alle quali sarebbe sottoposto. E quindi oggi potremmo raccontare la storia di un pilota “decaduto” e svuotato, vinto dal “fato”, del tipo che: “avrebbe potuto…”, “se solo…”. Il prodotto di un sogno che si rompe. E invece no, tutt’altro. Helmut si reinventa, si costruisce da sé come sempre aveva fatto, come solo le personalità più forti riescono a fare.
Diventa manager, scova talenti (Berger e Verstappen ad esempio) e apre persino una sua scuderia in Formula 3000. Poi un giorno conosce il boss della Red Bull, Dietrich Mateschitz, ne diventa consulente e il resto, come si suol dire, è storia. Così, se oggi siamo qua a raccontare una grande Red Bull, che da qualche anno fa tremare le gambe ai migliori, è anche merito di quest’uomo. Max Verstappen, ad esempio, non vede in Marko solo un “collaboratore”, ma una sorta di padre putativo. Una persona su cui contare a 360 gradi. In tutto e per tutto, insomma.
Helmut, nonostante la sua intransigenza e il suo carattere particolare, ci insegna come sia sempre possibile fermarsi un momento, raccogliere una per una le proprie macerie e ripartire più forti di prima. E’ la tua personalità a fare la differenza, e se c’è veramente emergerà ovunque tu ti cimenterai. Si chiama forza. Torniamo all’incidente. Le parole di Helmut: “C’era sangue dappertutto, e quel dolore terribile. Capii subito che era un problema serio… Alla fine venni operato in Francia, ma non prima del giorno successivo. L’occhio era già perduto. Pazienza: ho vissuto un’altra vita, e ne sono contento.”
Autore: Elisa Cuboni
Immagini: Oracle Red Bull Racing – F1Tv