lunedì, Dicembre 23, 2024

AERODINAMICA: CHE COS’È’ LO STRATO LIMITE

Con questo articolo tecnico che parla di aerodinamica voglio approfondire con tutti i lettori appassionati di tecnica il concetto che abbiamo sentito tantissime volte in Tv o leggendo i giornali specializzati: lo strato limite e in particolare come questo agisce su una vettura da corsa a ruote scoperte.

Cosa si intende per “strato limite”? Per strato limite (in inglese “boundary layer”) si intende quella porzione di fluido a contatto e nelle immediate vicinanze di una superficie solida. In questa zona, di fatto, avviene la transizione tra il flusso indisturbato più esterno e quello molto rallentato a contatto con la parete solida. La lamina d’aria a contatto con la parete solida non scorre, anzi, tende a rallentare tutte le successive lamine d’aria. Per convenzione, si definisce “spessore dello strato limite” la porzione di fluido la cui velocità differisce dell’1% dalla velocità del fluido indisturbato (velocità asintotica). O, in altri termini, raggiunge il 99% del valore della velocità asintotica del flusso esterno indisturbato. Lo strato limite ha origine laddove inizia la superficie solida (fig1).


Esso è di dimensioni molto ridotte (pochi millimetri), impercettibile, evidentemente invisibile. Tuttavia, tale sottile “cuscinetto” costituisce una delle più significative differenze tra le condizioni del fluido ideale e quelle della Aerodinamica del fluido reale. Lo strato limite, infatti, genera dissipazioni di energia, un vicendevole rallentamento delle lamine d’aria in corrispondenza della parete solida, riscaldamento termico (anche se nella maggior parte dei casi il poco calore sprigionato viene smaltito e disperso per conduzione verso gli strati più esterni e più freddi di fluido).

Lo strato limite può essere di tipo:

    • laminare: le lamine fluide seguono ed assecondano il contorno della superficie solida
  • turbolento: le lamine fluide seguono linee e traiettorie non più lineari e stazionarie, generando la formazione di turbolenze, distacchi e gorghi

Naturalmente, la qualità e le dimensioni dello strato limite variano, anzitutto, con l’aumento della velocità dell’aria rispetto al corpo, o del corpo rispetto all’aria (identiche velocità nel moto relativo) ed in base alla conformazione del corpo solido stesso (forma più o meno rettilinea ed affusolata, rugosità, etc.). Tuttavia, la qualità dello strato limite dipende anche dalle dimensioni delle superfici solide: più una superficie sarà ampia e più lo strato limite risulterà spesso e lento. Lo strato limite, inoltre, può transitare da laminare a turbolento, mai da turbolento a laminare in modo spontaneo. Questo, nei tratti generali, lo strato limite; come ovvio, l’indagine attorno a tale fenomeno fluidodinamico comprende e contempla complesse equazioni, le quali, però, non tratteremo.

Lo strato limite, dunque, è presente ogni volta vi siano in ballo alte velocità dell’aria e superfici solide a contatto con tale fluido. Gli effetti, pertanto, mutano anzitutto a seconda delle velocità. Va da sé che in ambito aeronautico, in cui le velocità risultano sensibilmente più elevate rispetto alle tradizionali vetture da competizione (ma già il divario si assottiglia rispetto ad alcuni “mostri” da record), gli effetti dello strato limite fanno sentire il proprio peso, tanto a velocità subsoniche che, soprattutto, supersoniche. Per non parlare, poi, del campo aerospaziale, in cui lo strato limite produce sollecitazioni (ad iniziare da quelle termiche) che possono risultare, in caso di avaria, anche fatali e letali. Tanto per citare, si pensi ad una capsula o allo Space Shuttle di ritorno sulla Terra. Pertanto, gli effetti della formazione dello strato limite su una vettura da competizione (tanto a ruote scoperte che coperte) risulteranno molto blandi, niente affatto pesantemente dannosi, sovente inavvertibili e trascurabili. Tuttavia, come vedremo, non mancano i casi in cui si tende ad escludere, evacuare ed energizzare il sottilissimo strato limite a beneficio della aerodinamica e della refrigerazione del motore.

Aeronautica e strato limite. È bene iniziare dal mondo aeronautico, ove tutto ha origine. Come già accennato, gli effetti dello strato limite si fanno sentire. Il controllo dello strato limite diventa, pertanto, vitale ai fini delle prestazioni generali del velivolo. Da almeno 60 anni, il mondo aeronautico (specie quello militare) adotta sistemi ed accortezze tecniche affinchè venga evacuato lo strato limite. Esso, infatti, si produce in quantità notevoli su tutta la superficie di un velivolo: sulla fusoliera, sulle semiali, sugli impennaggi, alettoni e flap, sul o sui timoni, in corrispondenza della o delle prese d’aria motore. Soprattutto a partire dall’inizio dell’era del motore a getto (seconda metà Anni 40, primi Anni 50), l’industria aeronautica militare ha sviluppato sistemi atti a garantire una eccellente evacuazione dello strato limite. Nella Fig.2 è rappresentata la presa d’aria motore (1 per lato) del caccia-cacciabombardiere monoposto Lockheed PF-80 “Shooting Star”.

Con 1 è indicato il condotto dello spillamento dello strato limite il quale, dopo aver lambito tutto il muso del velivolo, risulterà “stanco” all’ingresso della presa d’aria motore. Lo strato limite, pertanto, entra all’interno della fessura, quindi viene espulso all’esterno mediante la apposita griglia, indicata con 2.

Nella Fig.3, invece, si mostra il particolare della caratteristica ala di un caccia monoposto Lockheed F-104 “Starfighter”, provvisto, dalla versione C, di ipersostentatori “soffiati”. Il “soffiamento” è uno dei due sistemi principali di evacuazione dello strato limite in uso da molti decenni in aviazione. Con 3 è indicato l’ipersostentatore destro in posizione abbassata ed accuratamente forato. Un sottile getto di aria compressa viene soffiato attraverso condotti e fessure parallelamente alla parete disposti all’interno della supeficie da “pulire” (in questo caso, gli ipersostentatori). Ciò consente di energizzare (cioè velocizzare) lo strato limite, così da garantire un flusso d’aria sempre “pulito” scorrente lungo le superfici dei flap. Il soffiamento è molto funzionale, in quanto l’aria compressa può essere prelevata direttamente dal compressore del motore a getto. Non solo: oltre al siffatto sistema, esistono altri tipi di soffiamento, i quali sfruttano l’energia cinetica dei gas di scarico per energizzare ed alimentare le lamine d’aria in corrispondenza delle semiali. Un espediente che, come vedremo, è alla base dei famosi profili estrattori “soffiati”.

In Fig.4, infine, si focalizza l’attenzione attorno alla complessa quanto grandiosa presa d’aria motore a geometria variabile del caccia-cacciabombardiere biposto McDonnell-Douglas F-4 “Phantom II”. In questo caso, si parla di “aspirazione” dello strato limite.

In corrispondenza della presa d’aria motore, vi è un diaframma di separazione-aspirazione: esso, anzitutto, è staccato dal resto della fusoliera (andando a creare una intercapedine tra fusoliera e presa d’aria), quindi presenta una serie di piccolissimi fori sulla sua superficie. Grazie a tale sistema, lo strato limite “stanco” e poco energico che si presenta di fronte alle prese d’aria motore dopo aver lambito tutto il muso del velivolo, viene dapprima separato, “tagliato”, quindi aspirato mediante il diaframma forato. In questo caso, grazie ad una depressione creata all’interno del diaframma, viene rimosso tramite i fori lo strato limite adiacente al diaframma stesso, infine viene espulso esternamente attraverso le solite griglie, una dorsale ed una ventrale. Pertanto, il flusso diretto alle prese d’aria motore subisce una costante opera di “pulizia”, grazie all’effetto energizzante del sistema atto a non far ingerire lo spesso e “stanco” strato limite dalle prese d’aria motore stesse. Importante è creare uno spazio tra prese d’aria e fusoliera, così da evitare l’ingestione dello strato limite da parte delle prese d’aria: una soluzione assai diffusa in campo aeronautico, ma che trova impiego anche nelle competizioni.
Questi sistemi sono ancora oggi in uso su tutti i più moderni velivoli militari. Lo strato limite, dunque, è uno dei nemici principali del volo. Ogni parte del velivolo investito da aria ad alta velocità (dalle semiali alla fusoliera sino alle prese d’aria motore) deve poter essere in grado di energizzare ed evacuare in modo ottimale gli spessi, surriscaldanti e lenti strati limite che inevitabilmente si producono tanto nel volo subsonico che, soprattutto supersonico.

Influenza dello strato limite sulla aerodinamica di una monoposto: profili alari ed effetto suolo. Se nel volo lo strato limite rappresenta uno spauracchio costante, in ambito motoristico le cose stanno in modo molto diverso. Infatti, non sussistono le medesime condizioni “ambientali”. Per quanto una vettura da competizione vada veloce (velocità massime dell’ordine dei 350-360 Kmh o, in casi eccezionali sempre più rari, prossime o superiori ai 400 Kmh), sussiste un divario abissale tra le velocità raggiungibili da un’auto da corsa ed un aereo (ultraleggeri esclusi). Pertanto, lo strato limite che si forma attorno alle superfici di un’auto sarà assai più sottile e meno nocivo di quello presente su un Jet militare. Tutte le vetture da competizione non presentano sistemi di controllo dello strato limite simili a quelli rapidamente esaminati adottati in aviazione, sebbene sia a livello concettuale che pratico, essi potrebbero essere benissimo travasati anche in campo motoristico. Di certo, alloggiare e concepire un sistema di soffiamento o aspirazione dello strato limite (regolamenti permettendo) in una auto da competizione (peggio se monoposto a ruote scoperte…) perennemente a corto di spazio e sempre tendente al raggiungimento del peso minimo regolamentare, costituirebbe una sfida tecnologica non di poco conto, benchè sia fattibile, specie per quanto concerne i tunnel radiatori. Si fa ricorso, quindi, esclusivamente a metodi di controllo molto più semplici.
Tra i sistemi di controllo dello strato limite più ricorrenti (e alquanto insospettabili) rientrano i cosiddetti sistemi di ipersostentazione. In aviazione, essi garantiscono la massimizzazione della portanza (in decollo ed atterraggio) a scapito della efficienza alare (l’efficienza di un’ala è data dal rapporto tra portanza e resistenza). In campo motoristico, al contrario, i sistemi di ipersostentazione assicurano la massima deportanza, cioè aderenza in curva, ovviamente, a svantaggio della efficienza dei profili alari. Tutti questi sistemi, nemmeno a dirlo, sono frutto del travaso tecnologico dal mondo aeronautico a quello automobilistico.
La Fig.5 mostra in rapida sequenza i sistemi di ipersostentazione-controllo dello strato limite più diffusi in ambito sportivo.

Nel disegno A è rappresentato un profilo alare deportante provvisto di aletta nolder, anche conosciuto come “Gurney flap” o “wickerbill”. Brevettato agli inizi degli Anni 30 per applicazioni aeronautiche, il nolder viene impiegato per la prima volta in ambito automobilistico a partire dai primi Anni 70 negli USA. Si tratta di una sottile bandella collocata sul bordo d’uscita di un’ala, in posizione circa perpendicolare o perpendicolare al flusso. Equivale ad un minuscolo flap alla sua massima incidenza. Il nolder, solitamente regolamentato, consente di ottenere elevati incrementi di Cz (Coefficiente di portanza) quando le ali hanno, per regolamento o per scelta ponderata del pilota e tecnici (ad esempio, in un circuito medio-veloce o veloce), corda, dimensioni ed incidenze contenute. Ciò avviene grazie ai particolari vortici che si generano dietro l’ala provvista di nolder, il quale è in grado di amplificare la depressione in intradosso. Naturalmente, il nolder causa una riduzione di efficienza ed un incremento di Cx, il Coefficiente di resistenza. Nei disegni B, C, D, E, sono rappresentati alcuni esempi di ali a fenditura e schiera di profili. In un’ala a fenditura (parente stretta del flap Fowler e delle ali a flap multipli), la pressione dell’estradosso (cioè, il dorso del profilo alare) e la depressione dell’intradosso (il ventre del profilo) generano particolari getti in grado di energizzare lo strato limite formatosi sulle superfici, non consentendo il distacco del flusso. All’ala a fendituta, solitamente (regolamenti permettendo) si associano le schiere di profili, i quali danno vita alle note configurazioni biplane e tripalne tipiche degli alettoni posteriori e, più raramente, di quelli anteriori. Si tratta, insomma, dei classici flap disposti su più livelli i senso verticale all’interno delle paratie verticali. Con schiere di profili si possono ottenere elevate incidenze ed elevati valori di deportanza con rischi pressochè nulli di distacco. Nelle Fig.6 e 7, infine, si mostrano due importantissime applicazioni del nolder.

La prima, più comune, consiste nella applicazione di un nolder orizzontale all’uscita del profilo alare deportante e di altri nolder verticali in corrispondenza delle paratie verticali. La seconda, altrettanto utilizzata, consiste nella applicazione di nolder all’uscita dei profili estrattori, in posizione più o meno perpendicolare al flusso passante sopra gli estrattori stessi. La funzione è la medesima: più depressione in intradosso, più deportanza. Naturalmente, questa soluzione può essere adotatta solo se gli estrattori sono collocati esternamente, e non “affogati” nel fondo vettura (come i classici Venturi).

Si è accennato già alla qualità dello strato limite. Analizziamola, ora, più in dettaglio, grazie alla Fig.8.

Ai fini delle prestazioni aerodinamiche, è bene mantenere lo strato limite molto energico. In questo caso, avremo uno strato limite molto sottile, veloce, definito in gergo “gonfio” o “giovane”. Al contrario, quando lo strato limite si presenta spesso e lento (magari dopo aver lambito una parete di ampie dimensioni), viene definito a “profilo sgonfio”, o “stanco” oppure “vecchio”. La qualità dello strato limite, pertanto, influenza le prestazioni aerodinamiche di una monoposto, specie per quanto concerne la ricerca dell’effetto suolo. In particolare, risulterà basilare un adeguato controllo dello strato limite affinchè il fondo vettura ed i profili estrattori lavorino al massimo delle proprie capacità. Come noto, per ottenere deportanza mediante effetto suolo si inverte il funzionamento della portanza: flusso più veloce sotto la vettura (bassa pressione), flusso più lento sopra la vettura (alta pressione). Ciò si ottiene sfruttando il caro, vecchio Bernoulli e le proprietà del Tubo di Venturi. Come entra lo strato limite nell’effetto suolo? Dal 1990, siamo abituati a vedere vetture di F1 (ma non solo) provviste del cosiddetto “muso alto”. Un colpo di genio partorito dalle menti di Jean-Claude Migeot ed Harvey Postlethwaite, il primo Responsabile aerodinamico, il secondo Direttore Tecnico alla Tyrrell. La vettura era la rivoluzionaria Tyrrell 019. In Fig.9 e 10 si apprezza la configurazione “muso alto” della 019.

Il muso alto, accorgimento atto a far affluire aria più abbondante e meno perturbata verso il fondo vettura, trova nel prolungamento del fondo piatto non solo un espediente capace di rientrare nel regolamento circa l’estensione del fondo piatto, ma anche un artificio in grado di ridurre gli effetti nocivi dello strato limite. Accorciando, di fatto, il fondo piatto lo strato limite è più energico, più “gonfio”, in quanto ha lambito una superficie di fondo piatto più contenuta. Naturalmente, anche in corrispondenza della zona inferiore del muso alto vi è formazione di strato limite. Esso scorre lungo tutto il muso, tuttavia, giunto in corrispondenza della “chiglia” (debitamente modellata così da opporre minor resistenza possibile all’avanzamento) che congiunge il prolungamento del fondo alla scocca, subisce una sorta di evacuazione. Lo strato limite viene “catturato”, separato ed evacuato lateralmente, ecludendolo (o, quantomeno, energizzandolo e riducendolo) dal fondo vettura. Con i succesivi disegni, si ripercorre velocemente l’evoluzione dei musi delle monoposto, con riferimento allo strato limite e a come tale fenomeno interagisca con la parte anteriore di una vettura “formula”.

Fig.11: muso “basso” di una tipica vettura pre-Tyrrell 019.

Lo strato limite lambisce la parte sottostante del muso, la quale corrisponde alla zona più avanzata del fondo vettura. Fig.12: con i primi musi alti (qui, quello della Benetton B192 del 1992) si introduce la “chiglia” di evacuazione dello strato limite ed il prolungamento del fondo.

Lo strato limite scorre lungo la parte inferiore del muso, giunge in corrispondenza della “chiglia”-prolungamento e viene evacuato esternamente. Fig.13: un’altra configurazione “muso alto” contempla le due semiali anteriori unite direttamente al vertice del muso, come sulle vetture pre-Tyrrell 019.

Nonostante l’assenza degli appositi sostegni tra muso ed ala anteriore, il principio è il medesimo. Qui, vediamo il muso della Williams FW14B del 1992. Lo strato limite lambisce la zona inferiore e centrale del primo profilo dell’ala anteriore, prosegue lungo la parte bassa del musetto rialzato, giunge alla “chiglia” e al prolungamento per essere evacuato. Fig.14: un moderno muso alto, sempre più “scavato” nella sua zona inferiore ed ormai sempre più rettilineo, anzi, alcuni addirittura in salita.

Medesimo funzionamento circa la rimozione e la energizzazione dello strato limite. Fig.15: dettaglio della cosiddetta “chiglia” (o solco di evacuazione), ossia la zona di congiunzione tra scocca e prolungamento del fondo.

La forma affusolata e puntuta è in grado di energizzare lo srato limite, evacuandolo ai lati. Fig.16: è possibile realizzare musi rialzati privi di prolungamento del fondo. È quanto è successo e succede per le monoposto Indy, Champ Car e per la attuale Panoz della Superleague Formula.

Lo strato limite lambisce tutta la zona inferiore del muso, giunge in corrispondenza del fondo (che può essere piatto, scalinato, provvisto di profilo estrattore o di tipo wing-car): qui, verrà energizzato dall’azione pompante della vettura e dal contatto tra fondo e strada.

A questo punto, abbiamo introdotto un ulteriore modo molto “casereccio” di evacuazione dello strato limite dal fondo vettura. Nelle wing-car provviste di minigonne, i fenomeni connessi allo strato limite sono trascurabili. L’efficienza del fondo vettura e dei Venturi, grazie al sigillo offerto dalle mingonne, è sempre ottimale. In questo modo, è possibile realizzare un fondo non molto radente al suolo, poiché interviene l’azione delle minigonne sul contenimento dei flussi laterali. Come ovvio, si ha formazione di strato limite, ma esso, specie in corrispondenza dei profili laterali (più rialzati rispetto alla zona centrale del fondo), non riempirà l’intero spazio tra fondo e suolo (Fig.17).

Ma un fondo piatto, privo di minigonne e molto radente al suolo, palesa sostanziali differenze. Come noto, per accrescere la depressione sotto la vettura in presenza di un fondo piatto, occorre ridurre il più possibile la sezione di passaggio dell’aria tra fondo e suolo. Operazione indispensabile affinchè si riduca l’effetto dannoso dei flussi laterali che penetrano verso il fondo, richiamati dalla depressione ivi esistente. Nel periodo che va dalla seconda metà degli Anni 80 sino all’introduzione del fondo scalinato (1995), le monoposto di F1 presentano un fondo piatto assai rasente al suolo: mediamente 2-2,5cm, oppure ancora meno (pochi milimetri), con variazioni di altezza dell’ordine di 5mm tra circuiti con fondo molto levigato o più scabroso. Tale estrema configurazione (valori di deportanza enormi!) comporta, in primo luogo, vistosi strisciamenti del fondo-vettura sulla pista: strisciamenti voluti e cercati (senza esagerare, pena integrità compromessa del fondo, della scocca e della schiena del pilota, comunque massacrata…), i quali producono vivaci scintille (il fondo viene protetto da piccoli pattini d’acciaio, Fig.18).

In secondo luogo, l’avvicinamento estremo del fondo alla strada comporta il totale riempimento della sezione di passaggio dell’aria tra fondo e strada da parte dello strato limite. Tuttavia, gli effetti dannosi vengono leniti, poiché interviene l’effetto pompante della strada. La pista, in sostanza, costituisce una sorta di parete mobile del Venturi; pista che, di fatto, si muove in ogni istante alla medesima velocità di crociera della vettura. In tal modo, lo strato limite formatosi al contatto con la estesa superficie del fondo piatto e che tenderebbe a rallentare eccessivamente il flusso d’aria passante sotto la vettura (realizzando così condizioni di strato limite “stanco”) viene letteralmente trascinato, evacuato ed energizzato dalla strada. Da qui, la necessità di far toccare ripetutamente il fondo sulla strada.
In Fig.19, infine, sono rappresentati con A un tipico fondo piatto munito di pattini circolari d’acciaio (configurazione che vale tanto per le vetture a “muso basso” che “muso alto”), e con B un tipico fondo piatto scalinato (introdotto in F1 nel 1995 e che poi ha preso piede in quasi tutto il motorismo, tanto a ruote scoperte che coperte), provvisto di pattino centrale (notare anche la differenza di sbalzi dei profili estrattori…).

Nel primo fondo, lo strato limite è concentrato in egual misura lungo tutta la superficie, nel secondo, invece, lo strato limite riempirà la sottilissima sezione di passaggio tra pattino e strada (per poi essere energizzato grazie all’azione pompante della strada), mentre lambirà le estremità del fondo (il cosiddetto Step Plane, più rialzato rispetto al Reference Plane e al pattino centrale, a sua volta fissato al Reference Plane) senza, tuttavia, riempire la sezione di passaggio dell’aria. Un fondo più rialzato senza minigonne, pertanto, lenisce gli effetti dannosi dello strato limite ma, allo stesso tempo, peggiora le condizioni di depressione esistenti sotto la vetura (scarsissimo, per non dire nullo, contenimento dei flussi laterali), con conseguente decadimento dei valori di deportanza.

La qualità dello strato limite influenza anche le prestazioni di un diffusore. Infatti, affinchè si massimizzino le prestazioni di un qualsivoglia diffusore (per quanto riguarda l’effetto suolo, anche conosciuti con il nome di profili estrattori, introdotti da Migeot nel 1983 sulla Renault RE-40), occorre scongiurare la situzione di strato limite spesso e “stanco”. Uno strato limite stanco, infatti, limita e compromette le capacità diffondenti, con deleterie ricadute sul rendimento stesso del diffusore. Fondamentale, dunque, è assicurare già a monte e all’ingresso del diffusore (cioè, nella strozza del Venturi, rappresentata dal fondo) uno strato limite molto energico e “giovane”. Poiché all’interno del diffusore si registra una diminuzione della velocità del flusso ed un graduale e parziale ripristino della pressione (che, però, non risalirà mai ai valori esterni, ragion per cui dal bordo d’entrata del fondo sino all’uscita dei profili estrattori regna depressione), è essenziale che lo strato limite sia bello energico. In caso contrario, lo strato limite, che dovrà lavorare in condizioni di pressione crescente (gradiente di pressione positivo), accrescerà sempre più il proprio spessore, diventando sempre più lento, “stanco”. Si verifica, allora, una inversione del flusso, che comporta un distacco del flusso stesso dalle pareti del diffusore (Fig.20).

Ovviamente, tale condizione deve essere a tutti i costi scongiurata: significherebbe, altrimenti, che il diffusore è al limite delle proprie capacità diffondenti, cioè mal progettato. Un profilo estrattore, infatti, necessita di una attenta fase progettuale: deve essere, cioè, una sintesi perfetta tra lunghezza, larghezza, angolo di incidenza, etc.
Un modo per energizzare lo strato limite all’interno del diffusore (di fatto, un residuo dei lunghi Venturi dell’era wing-car) è “soffiare” gli scarichi all’interno del diffusore stesso. Anche questa soluzione è introdotta in campo automobilistico (prelevata dal mondo aeronautico…) dal genio Migeot sulla Renault RE-40, in occasione del GP di Montecarlo 1983: una soluzione che a Prost, all’inizio, non piaceva affatto! Grazie all’effetto eiettore dei gas di scarico, la lamina d’aria viene energizzata, allo scopo di amplificare la deportanza per effetto suolo. Naturalmente, una siffatta configurazione comporta un certo disequilibrio di carico della vettura, poiché le condizioni all’interno dei profili estrattori variano a seconda che ci si trovi in accelerazione o in rilascio. Il segreto consiste nel progettare il tutto con molta attenzione e nell’adattamento (non facile) del pilota a tali repentini cambi di carico. Adrian Newey, dopo il fallimento degli scarichi bassi sulla McLaren Mp4-18, riscopre la via degli scarichi che soffiano sul diffusore nel 2010, in Red Bull. L’efficacia è minore rispetto agli scarichi completamente annegati all’interno dei profili estrattori in stile Anni 80 e 90, tuttavia, probabilmente meno rischiosa e complicata da gestire dal pilota.

Brevi cenni sulla relazione tra strato limite e la refrigerazione del motore. La refrigerazione del motore necessiterebbe di una trattazione a parte, considerata la vastità e la complessità dell’argomento in questione. Ci limiteremo, in questa sede, nel dire che il cosiddetto “tunnel radiatori” (bocca della presa d’aria, diffusore, posizione e dimensione del radiatore, effusori, condizioni dello smaltimento del calore, etc.) viene anch’esso influenzato dalla qualità dello strato limite. Per il tunnel radiatori, non esiste un sistema attivo di rimozione dello strato limite, sebbene in linea teorica potrebbe funzionare tanto il soffiamento che l’aspirazione. Da molti decenni, si impiegano apposite pance, al cui interno sono raccolti i radiatori. Ebbene, eccezion fatta per le pareti più esterne delle fiancate, la restante parete interna (ossia quella addossata al resto del corpo vettura) viene inondata di strato limite. Uno strato limite piuttosto “stanco”, poiché ha lambito tutto il muso e parte della scocca. Evidentemente, una condizione non ottimale, poiché la presa d’aria ingerisce uno strato limite spesso, lento, “stanco”, con conseguente peggioramento delle capacità diffondenti del diffusore. Per far fronte a tale inconveniente, non vi sono rimedi. Anzi, quella di addossare la parete più interna della presa d’aria alla scocca è la soluzione più diffusa per quanto concerne i tunnel radiatori, oggi come in passato. Ma non mancano le eccezioni.
Nel 1992, ancora Migeot tirò fuori dal suo cilindro magico la Ferrari F92A: una vettura fallimentare in pista, ma che, ancora oggi, è da considerare tra le F1 più rivoluzionarie, ardite, sofisticate mai apparse. Le Fig.21 e 22mostrano la caratteristiche fiancate della F92A.

I tunnel radiatori sono staccati dal resto della vettura; in questo modo, si crea una intercapedine tra scocca e pance, di limpida derivazione aeronautica. Questa originale configurazione non solo presenta (o almeno dovrebbe…) vantaggi ai fini della deportanza, ma anche e soprattutto ai fini di una corretta evacuazione dello strato limite. In sostanza, lo strato limite che arriva “stanco” all’ingresso delle prese d’aria, dopo aver lambito il muso, non viene affatto ingerito dai tunnel radiatori, bensì espulso all’esterno grazie a questa sorta di “solco di evacuazione”, in parte verso il fondo vettura, in parte deflesso verso l’alto. Una soluzione originale, ripresa, con le dovute differenze, da Barnard nel 1996, con la Ferrari F310 (Fig.23).


Intervengono indirettamente, nel complesso gioco degli strati limite, anche i cossidetti “barge-boards”, ossia i deviatori di flusso posti dietro le ruote anteriori, in corrispondenza delle prese d’aria dei radiatori, introdotti nel 1993 dalla McLaren. Queste appendici, inizialmente piuttosto semplici, subiscono continui affinamenti del corso degli anni. Le vetture F1 del 2008, prima dei tagli avvenuti nel 2009, presentano deviatori che definire intricati ed essessivamente complicati è un eufemismo. I barge-boards, i quali agiscono di concerto con i cosiddetti “turning vanes” (deviatori posti sotto il muso, in corrispondenza delle ruote anteriori), svolgono duplici funzioni, intente a separare, canalizzare, indirizzare, energizzare, “succhiare” i flussi più o meno deflessi provenienti dall’ala anteriore verso il fondo ed i profili estrattori, le prese d’aria radiatori, l’esterno delle fiancate. Tutto ciò, grazie a complessi giochi di vortici ed effetti labirinto. Ad ogni modo, tutti i barge-boards, dai più semplici ai più complessi, hanno in comune una caratteristica. Come si può apprezzare nelle Fig.23, 24, 25, 26, questi schermi non vanno mai a raccordarsi con il bordo di ingresso delle prese d’aria dei radiatori, bensì lo aggirano. In tal modo, i deviatori non scaricano i loro strati limite (anche se piuttosto energici) formatisi sulle proprie pareti (una interna ed una esterna) dentro le prese d’aria radiatori, al contrario, li scaricano all’esterno della vettura.

La presa NACA: bella, utile e anti-strato limite. È, con ogni probabilità, una delle invenzioni tecnologiche più rivoluzionarie ed avanzate di tutti i tempi. Studiata dal National Advisory Committee for Aeronautics (NACA) statunitense alla metà degli Anni 40, la presa NACA è anche conosciuta col nome di “submerged inlet”, che altro non è che il nome di battesimo della presa d’aria stessa. Oltre ad essere esteticamente meravigliosa, la NACA presenta alcuni vantaggi indiscussi. Essa, infatti, oppone scarsissima resistenza all’avanzamento (grazie alla sua particolare fattura, a filo con la superficie e provvista di una apposita rampa annegata nella superficie stessa), garantisce un flusso poco perturbato a sufficiente pressione. Ma, il pregio più significativo riguarda la sua natura anti-strato limite. Il disegno della NACA (Fig.27, 28), infatti, è in grado di generare particolari vortici controrotanti, i quali, a loro volta, consentono di energizzare lo strato limite, evacuandolo all’esterno.

In questo modo, la presa NACA provvede a far fluire all’interno del condotto una lamina d’aria sempre “pulita” e molto energica. Tuttavia, anche la NACA non è perfetta. Essa, infatti, non garantisce elevate portate d’aria ad alta pressione. Motivo per cui non viene impiegata, in ambito aeronautico, in qualità di presa d’aria motore. Ci provò la North American con il bellissimo prototipo YF-93, senza successo. In campo automobiloistico, invece, le NACA hanno avuto un discreto successo, specialmente impiegate nella refrigerazione e ventilazione di freni, radiatori e organi interni (anche provviste di un piccolo “scoop”), più raramente come bocca d’aria di turbo e motore.

Chiudiamo questo sostanzioso articolo con un riferimento che potremmo definire storico. In Fig.29 è mostrata la piccola presa d’aria a periscopio del F-Duct della McLaren. Come si vede, essa è separata dal resto del muso mediante un rialzo, un solco di evacuazione dello strato limite.

Una soluzione adottata anche dalla Renault per il suo F-Duct in posizione dorsale e provvisto di due “periscopi” ai lati della presa dinamica del motore. Tali prese d’aria, F-Duct a parte, sono assai diffuse da molti anni: è il medesimo principio delle prese d’aria motore degli aerei, delle Ferrari F92A e F310.

Autore:Paolo Pellegrini – circusf1.com

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