La storia di Lewis Hamilton è deviante rispetto a quelle consuetudinarie. La Formula Uno – e in generale il motorsport – non sono mondi nei quali facilmente riesce ad emergere chiunque. Non che non siano ambienti meritocratici, ma l’accesso alla disciplina tende ad estromettere chi ha poche risorse finanziarie e scarsa capacità a sostenere un giro altamente dispendioso. Che può essere fatale per i pesci piccoli. Non a caso, scorrendo le lunga lista dei piloti che hanno messo le mani su un volante della massima categoria, troviamo nomi che si ripetono ciclicamente. Potremmo citarne tanti, dai Piquet agli Andretti passando per gli Schumacher. Nel succitato elenco troviamo anche i nomi dei rampolli di illustri casate dell’universo della grande industria. Ma pure quelli dei discendenti di famiglie che mai hanno dovuto fare i conti con bollette rinviate e pagamenti insoluti. Ecco perché l’epopea di Lewis è “anormale”. Ad iniziare dal fatto che uno dei più grandi di sempre sia un uomo di colore in uno sport prettamente di bianchi.
Per arrivare in alto, per diventare una stella luminosa, servono talento, fortuna e una grandissima dose di autostima. Che il giovane Lewis Carl avesse spiccate doti di pilotaggio è un qualcosa che subito è balzato agli occhi. Ma quel talento, per sbocciare, ha dovuto fare affidamento su un padre abnegato che ha sacrificato lavoro e un matrimonio per dare i necessari strumenti finanziari al figlio che ha mosso i primi passi nel karting britannico. Ma ad un certo punto serve dell’altro per creare la giusta alchimia che sottende ad ogni storia di successo. Ed è qui che entra in gioco la dea bendata che ha fatto in modo di far incrociare la strade del ragazzino di Stevenage e di Ron Dennis, uno che di talenti se ne intende, che rimase letteralmente folgorato dalla sagacia di quel ragazzotto col casco che richiamava i colori del suo idolo; di quell’Ayrton Senna al quale ha tributato la carriera.
Stoffa e buona sorte, da sole, non potevano bastare per trasformare un stellina in un sei volte campione del mondo. Nonché in uno degli sportivi più famosi al mondo. Ma anche in un imprenditore di successo, in uno stilista e, in generale, in una vera e propria icona social – un influencer come si usa dire oggi – che da sola muove più seguaci del brand F1 nella sua interezza. Basti dare uno sguardo alle cifre spaventose che ogni suo post produce su Twitter piuttosto che su Instagram. Per arrivare a questi livelli, dicevamo, serve determinazione, risolutezza, voglia e coraggio di sfidare se stessi ancor prima che gli altri. Che siano avversari in pista o la classica banda di bulli che si fa gioco di un ragazzino insicuro. Di come abbia costruito la sua sfera psicologica e, di conseguenza, la sua carriera, il campione del mondo in carica ha parlato nella videorubrica settimanale che va in onda sul sito ufficiale della Mercedes.
“Ho mai dubitato delle mie doti al volante? No!”. Così si apre la chiacchierata col britannico; un incipit che indica con chiarezza quale sia la volizione che l’ha mosso in questi anni. “Naturalmente non do una risposta così perentoria anche riguardo altre situazioni. Provo a fare molte cose nella vita e mi capita di fallire, di pensare di far schifo. Certe volte sono negativo, ma poi mi dico di continuare a spingere. Ho la forza di superare quel muro che mi si para dinnanzi. E’ un qualcosa che ho fatto per tutta la vita e che mi ha dato fiducia. Salgo in macchina, mi metto il casco e sono in grado di essere chiunque io voglia essere. Se volessi, potrei essere Superman sotto quel casco”.
Hamilton spiega che la sua capacità di adattarsi alle condizioni avverse nasce nella sua infanzia, dalle difficoltà che ha dovuto affrontare per sopportare momenti difficili in un ambiente che tendeva a marginalizzarlo: “Quando ero a scuola sono stato vittima di bullismo. Ero piccolo e subivo le prepotenze di quelli più grandi di me. Perciò mi chiusi sempre di più nel mio bozzolo. Ero taciturno, ma quando salivo sul kart sapevo sgomitare e difendermi. Alla fine ho sviluppato fiducia in me stesso ed ho iniziato ad aiutare chi come me veniva maltrattato. In questo mi ha molto aiutato l’aver fatto karate”.
Con questo spirito Hamilton ha edificato la sua carriera. Passo dopo passo, tassello dopo tassello. L’abitacolo come un’area protetta nella quale sviluppare la tenacia necessaria per imporsi a quel mondo che lo estraniava. Ma, nonostante questa ferrea determinazione, ci sono stati momenti difficili che hanno fatto pensare al britannico di mollare: “Penso che ci sia stato un momento, molto molto tempo fa, quando ero in Formula Renault, in cui ho pensato di abbandonare. Ma mi sono rialzato. L’indomani sono andato a fare una corsa di 14 miglia ed è passato tutto”.
Dalla parole dell’anglo-caraibico emerge chiaro il suo approccio alle cose. Uno spiritualismo spesso criticato e ritenuto di facciata (un tratto che lo accomuna a Senna) ma che è frutto della sua esperienza di vita. Siamo abituati a vedere Hamilton come un uomo ricco, come uno sportivo arrivato. Ma il percorso che l’ha portato alla fama è stato lastricato di difficoltà e crolli emotivi. Esperienze che hanno creato, forgiato e inspessito quelle barriere psicologiche che sono state basi e fondamenta della possanza tecnica che oggi dimostra in pista.
Hamilton è una persona che nel suo lavoro è abituata a vincere. E proprio per questa ragione la sua caratura non la si percepisce quando è sul gradino più altro del podio. Quella, infatti, è un’immagine quasi scontata. Un’icona. La forza di Lewis la si annusa nelle sconfitte e nell’attitudine a trasformarle in risorse. In quel 2007 nel quale gettò alle ortiche un titolo già suo con delle manovre tipiche nel novizio in preda all’ansia da prestazione. Ma anche in quel 2016 quando, da affermato campione, dovette inchinarsi a chi veniva ritenuto da tutti un driver tecnicamente meno preparato. Da quelle delusioni, da quelle batoste, da quei pugni in volto, Hamilton è sempre risorto. E ne è uscito più duro e vincente di prima. Tratti, questi, comuni ai grandissimi del motorsport che si sono sempre sollevati dopo le cadute più fragorose.
Autore: Diego Catalano– @diegocat1977
Foto: Mercedes, F1