In Formula Uno si pensa sovente che viga un assioma che determina l’andamento di talune dinamiche. Uno dei più citati è il seguente: “Il pilota X vince perché ha a disposizione la macchina più veloce del lotto”. Evidenza che non avrebbe bisogno di commenti tanto è scontata e, forse, banale. Ma proprio per rifuggire da analisi superficiali sarebbe opportuno ribaltare gli elementi di questa visione dogmatica. La cose possono essere valutate sotto diverse angolazioni. In virtù di questo potremmo asserire, senza cadere in errore, che il ciclo Mercedes, quello che vede gli anglo-tedeschi vincere ininterrottamente da otto stagioni, è potuto partire anche – e sottolineo anche – grazie al pilota che ha segnato questa era sportiva: Lewis Hamilton.
Il britannico ha abbracciato il team della Stella a Tre Punte nel 2013. Da quel momento la crescita è stata repentina, a tratti indomabile. E si è trattato di un ingigantimento prestazionale reciproco: sia la vettura che il pilota hanno raggiunto livelli prima impensabili. Determinando, così, l’abbattimento di ogni record scolpito in precedenza. Una cosa che andrebbe messa sotto la lente d’ingrandimento è quell’alchimia che fa sì che i migliori si annusino e, ad un certo punto, si sposino. Creando poi un legame unico che diventa esso stesso storia del motorsport. Potremmo citare decine di casi, a partire da Schumacher – Ferrari, passando per Vettel – Red Bull e, tornando indietro negli anni, ricordando la liaison tra Ayrton Senna e la McLaren.
Sono alcuni dettagli che rendono grande un determinato pilota. E quelle minuzie, spesso, sono alla base della crescita di un’intera compagine che si giova di alcuni aspetti maniacali che si trasformano in routine di lavoro che diventano uno degli elementi – ovviamente non l’unico – alla base delle stagioni vincenti. E nel caso Hamilton – Mercedes parliamo di un imperio lungo, lunghissimo. Un qualcosa che in Formula Uno non avevamo osservato in precedenza.
A leggere i giudizi di alcuni uomini chiave di casa AMG, Hamilton ha fatto molto più di quanto certa critica e certi tifosi gli riconoscono. Aldo Costa, uno che per Stoccarda ha fatto tantissimo, ha spes lodi per il britannico: “Lewis è l’imperatore di un automobilismo che richiede un approccio molto teorico: dopo ore e ore di lavoro al simulatore la risposta la avrai solo dalla gara. Lui in questo è fenomenale, maniacale come era Schumacher nel sottoporsi allo stress dei test infiniti. Hamilton – ha aggiunto l’ingegnere italiano – era capace di telefonarmi la domenica a casa per discutere di un dettaglio della vettura!”.
Valutazioni confermate da chi ora lo gestisce direttamente il sette volte campione del mondo. “Hamilton ha una volontà implacabile di imparare” ha esordito Adrew Shovlin, trackside engineering director di Mercedes, a Beyond the Grid. “Non è in un’area specifica che sono rivolti i suoi sforzi, è il fatto che ogni volta che non vince una gara va e si allena cercando di capire perché non è successo. Si focalizza su come vincere la successiva ed è quello che poi riesce a fare. Il suo è un continuo e costante processo di comprensione e miglioramento. E’ implacabile da questo punto di vista e ritengo che debba essere abbastanza estenuante perché non si ferma davvero mai. Continua a migliorare sempre di più, ha già battuto tutti i record. Vedere un pilota che ha ottenuto così tanto lavorare ancora duramente per ottenere un’altra vittoria come se fosse la prima, ti fa capire perché è dove si trova. Il suo successo – ha chiuso il tecnico – dipende dal duro lavoro, dalla dedizione e da questa implacabile voglia di continuare a vincere“.
Una mentalità da cannibale unita ad un perfezionismo che spesso non viene attribuito all’anglo-caraibico perché l’osservatore viene distratto da ciò che Hamilton è fuori dalla pista. Non si cada in fallaci giudizi: l’esser personaggio pubblico, aspirante musicista, testimonial di diversi marchi e latore di importanti messaggi sociali non vuol dire non essere focalizzati sulla pista e su ciò che serve per primeggiare. Probabilmente le attività extra-circuito servono al britannico per ricaricare le pile e presentarsi ancora più affamato e sportivamente arrabbiato sotto i semafori della linea di partenza.
Anche il capo stratega della Mercedes, James Vowles, ritiene che Hamilton possegga doti uniche che gli hanno permesso di avere una carriera così importante: “Non molla mai. Ci sono così tante gare che tutti noi abbiamo avuto il privilegio di disputare con lui nella quali non aveva la macchina più veloce. Ma lui combatte con le unghie e con i denti e sai che darà tutto. Non si tirerà indietro, non cederà. Potrebbe essere frustrato e sconvolto per aver commesso un errore e averlo messo in una situazione difficile, ma alla fine ce la fa ed è quello che ha fatto tutto il tempo che siamo stati con lui”.
Quel che andrebbe evidenziato, una volta e per tutte, che la F1 è uno sport di pacchetto nel quale intervengono moltissimi elementi che, singolarmente, hanno un peso nel creare quell’alchimia alla base dei cicli trionfali. Hamilton senza Mercedes non avrebbe ottenuto i risultati che ha ottenuto. Probabilmente lo stesso si può dire invertendo i fattori. Una gara come quella del Bahrain (leggi qui l’analisi degli on board), per rimanere nella stretta attualità, non la porti a casa se non hai un pilota come Lewis in monoposto. I mondiali 2017 e 2018, quelli rimasti in equilibrio per oltre metà stagione, si vincono anche grazie alla presenza di driver maniacale nell’approccio e ossessionato dalla voglia di migliorarsi, in ogni ambito. Evidenze chiare che purtroppo vengono omesse in virtù di una critica che spesso si perde in interessi di palazzo (leggasi tifo) smarrendo facoltà analitiche necessarie e spiegare certi fenomeni.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: Mercedes