F1. Ancora Italia-Inghilterra, o per meglio dire Inghilterra vs resto del mondo. In effetti non basta una coppa vinta o sfumata per pareggiare i conti, specie quando la pista è calda, troppo calda rispetto alle aspettative del clima. Hamilton ha trionfato, ha sventolato l’Union Jack. Meritatamente, vista la pole, che per me tale rimane, anche se del venerdì. Indiscutibile, visto il ritmo gara impressionante con gomme dure, nel secondo stint. E allora perché continuo ad avvertire quella sensazione di amaro in bocca, quel odore di beffa?
Lo ammetto senza riserve. Quest’anno sto dalla parte di Max. I motivi sono svariati. E’ un campione, ha una macchina finalmente in grado di competere, non ha nulla da invidiare ai migliori , e, anzi, può scrivere la storia. Ma la pancia, nuda e cruda, dice altro. Mi suggerisce che solo lui può detronizzare Lewis, che solo lui può competere con il grandissimo della F1 contemporanea. Semplicemente perché sono fatti della stessa pasta. Proprio per questo, la faccenda va sentita, più che analizzata.
Giusta la penalità, dato l’incidente e il potenziale danno. Alcuni invocano squalifiche, ma sarebbe comunque iniquo. La sanzione, in sé e per sè, poteva esserci o meno, in assoluto, ma è sacrosanta alla luce dei criteri in voga oggigiorno. E no, non si tratta di lasciarli correre, quello va bene se si tratta di track limits, non se si spedisce fuori il diretto avversario. Quindi, per una volta, d’accordo con i commissari, ma in disaccordo con chi chiede la ghigliottina.
Il punto che mi preme è un altro. Lewis Hamilton è un imperatore, un pilota di F1 incommensurabile che ha fatto del fair play il suo cavallo di battaglia. Corretto in pista, encomiabile quanto a dichiarazioni. Oggi invece fa tutto il contrario rispetto al solito. Un’azione ai limiti, comprensibile vista la foga e la posta in gioco, e un’esultanza fuori misura, dato il concorso di colpa. Salvo poi aggiustare il tiro con un bel post in cui si onora l’avversario, con tanto di migliori auguri, e si celebra il rischio insito in questo sport. Lacrime di coccodrillo, o di compiacenza.
Lewis è un combattente nato, non lascia nulla di intentato. La sua cifra sono i giri veloci, nessuno come lui sa inanellarne a profusione. Ma allo stesso tempo è anche il più cauto, il più accorto, il più spietatamente calcolatore quando si tratta di sorpassare. Oggi invece ha dimenticato la sua natura e ha fatto prevalere l’istinto ferino, quello che non si guarda indietro e fa a brandelli l’avversario. Un bene, perché nessun campione è un missionario e a nessun pilota chiediamo comportamenti da educanda. Però tutto questo stona parecchio con l’immagine che Hamilton ha sempre dato di sé.
Lewis oggi ha messo il suo sigillo in terra inglese, con una vittoria cattiva e autorevole. Si è preso gli onori delle statistiche e della folla festante. Ma per chi lo segue e lo apprezza da tempo quest’ennesima vittoria in F1, la numero 99, rappresenta una sorta di clamoroso autogol. Grandiosa per il pilota, meschina per l’uomo. Una sorta di cavalcata senza ammenda, che non premia i giusti, che condanna i soliti noti.
C’era un certo Charles Leclerc, notoriamente cavallino rampante, che ha fatto la formichina fin da ieri. Nessun rischio inutile nella sprint race, una partenza caparbia, un sorpasso deciso nell’unico momento buono. Leader della gara fino a due giri dalla fine, capitolato in nome di un dio maggiore, e dei suoi potenti mezzi. C’è stato un intramontabile Fernando Alonso, che ha lottato, osato, risparmiato, creando una solida posizione finale. E come loro tanti piccoli grandi eroi degni di menzione: Russell e Vettel in qualifica, Raikkonen agli start, Ricciardo per una rivalsa.
Ecco, Silverstone è terra più loro che di Hamilton, perché l’hanno animata e sospirata, indipendentemente dai mezzi e dal risultato. Perché la F1 non ha bisogno di nuovi format per ravvivarsi, ha solo la necessità di raccontare nuove, inedite storie.
Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
Foto: Red Bull – Ferrari