venerdì, Novembre 22, 2024

Come si batte Sir Lewis Hamilton?

Sì… Hamilton si può battere. Lewis non è invincibile e la storia lo ha dimostrato. Ma avere la meglio su di lui non è affatto semplice. Specie dopo quel 2016 che rappresenta la sua personale cesura. Il momento in cui si è trasformato in uno schiacciasassi implacabile che, complice un team altrettanto affamato, ha fatto man bassa di trofei, riconoscimenti e record che l’hanno portato ad essere il driver più titolato della ultrasettantennale storia della F1.

La carriera di Hamilton è stata folgorante. Sin dal kart. Ha bruciato le tappe e si è imposto in ogni categoria mostrando innate doti di pilotaggio. E’ uno che ha bruciato le tappe Carl Davidson, tanto che a fine 2006, Ron Dennis, un uomo fondamentale per la crescita sportiva ed umana del ragazzo nato a Stevenage il 7 gennaio 1985, ne annuncia il passaggio in McLaren.

Nell’anno del debutto in F1 – ma questa è un racconto arcinoto – “rischia” di vincere il titolo mondiale che perde per una faida intestina con Fernando Alonso e per alcuni errori da matita blu figli dell’irruenza giovanile. Si rifarà l’anno successivo, all’ultimo GP, all’ultima curva, all’ultimo istante, mentre in Ferrari già stappavano lo champagne e si lasciavano andare a baccanali beffardamente immortalati in immagini famosissime. La prima perla di altre sei che lo porteranno ad essere un sette volte campione del mondo che vuole prolungare la striscia di successi e scolpire nella pietra il suo nome.

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i due piloti McLaren, Fernando Alonso e Lewis Hamilton, compagni di squadra all’epoca dell’oramai lontana stagione 2007, “festeggiano” sul podio del Gran Premio degli Stati Uniti d’America disputato nello storico circuito di Indianapolis

L’Hamilton che conosciamo oggi è uno sportivo affermato – e non potrebbe essere altrimenti – e un personaggio divenuto una sorta di punto di riferimento. In una sola parole: influente. Un soggetto capace di impegnarsi in mille attività. Anche di un certo spessore come dimostrano le campagne sociali che conduce e che esulano dalla mera sfera della F1. Opere figlie di un uomo sicuro di sé, di una persona che riesce a tracciare il solco senza la necessità di avere un supporto.

Eppure così non è stato. La cronistoria della sua crescita personale, umana e sportiva, racconta della presenza di figure chiave che hanno accompagnato Hamilton nel dipanarsi della propria carriera. In principio troviamo il padre che ha quasi annullato se stesso per consentire al figlio – ragazzino di colore in un mondo essenzialmente bianco – di esprimere le sue indiscutibilmente enormi doti di pilotaggio.

La presenza di Anthony è stata una costante, anche nella prima stagioni di F1. Il padre era una sorta di consigliere speciale, un manager a tutto tondo che ne gestiva l’ascesa. E lo proteggeva come ogni genitore farebbe con un figlio. Una presenza che ad un certo punto si è fatta asfittica visto l’epilogo che ha narrato di una collaborazione professionale interrotta per scelta e volontà del pilota che voleva camminare con le sue gambe. Senza la balia ad indicarne il percorso.

Succede, ad osservare la parabola hamiltoniana, di ravvisare uno strano fenomeno: il legarsi profondamente ad una persona, che diventa punto di riferimento esclusivo, per poi mollarlo quando questa presenza si fa troppo ingombrante. Quasi limitante. E’ lo stesso processo osservato nel rapporto con Ron Dennis, un altro uomo chiave della vita di Lewis.

Fu il n°1 nella McLaren – uno che aveva visto da vicino e gestito gente del calibro di Niki Lauda, Ayrton Senna, Alain Prost, Mika Hakkinen e via citando – a stanare Lewis sulle piste di provincia nelle quali ragazzotti in erba sgomitavano a suon di ruotate su kart tenuti insieme alla bene e meglio. Ron seppe annusare il talento come un leone sente l’odore della preda. E lo prese sotto la sua ala protettrice. Hamilton per McLaren fu un investimento che alla lunga ha fruttato. Ma forse meno del prevedibile visto che Woking, sul calar degli Anni ’90, ha iniziato a conoscere una crisi sempre più profonda dalla quale, dopo difficoltà inenarrabili, si sta lentamente riprendendo.

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il campione del mondo britannico Lewis Hamilton corre tra le braccia di Niki Lauda per festeggiare la vittoria

Hamilton ha dimostrato di avere un fiuto parecchio spiccato per ciò che attiene le scelte personali. Nel 2012 comprese che l’epopea della gloriosa scuderia britannica stava per spezzarsi e decise di mollare tutto: macchina, team e Ron Dennis. Molti scrissero che si trattava di una scelta mossa dal dio danaro. Non è propriamente così. Lewis sposò un progetto rivelatosi vincente. Lungimiranza. Ma soprattutto si legò – e qui la conferma che il pilota ha sempre avuto bisogno di alleati forti – a Dieter Zetsche che lo volle con ogni forza.

In Mercedes Hamilton ha conosciuto fama, gloria, trionfi forse insperati anche se sempre sognati. Ma ha anche incrociato tre personaggi che hanno contribuito alla definizione finale della sua personalità: Niki Lauda, Toto Wolff e Angela Cullen. Ognuno con le proprie caratteristiche peculiari, ognuno con il suo bagaglio di esperienza dal quale Lewis ha attinto come un’ape su una margherita che sboccia a primavera.

Ritorna, dunque, un tratto distintivo del campione: la necessità di interagire con delle spalle forti pur dimostrando, almeno pubblicamente, di essere un solitario. Un self-made-man. Un uomo che fatto e che fa da sé. E’ quindi evidente che alla base della crescita del pilota ci siano state figure chiave che l’hanno condotto per mano verso la gloria.

Ma non si è trattato di una conduzione passiva. No, Hamilton non si è fatto trascinare della corrente. Ha scelto scientemente (la Cullen è stata “pescata” fuori dal contesto della F1) le figure cui legarsi perché erano quelle che Lewis riteneva necessarie per i propri scopi. Una sorta di utilitarismo psico-sportivo che ha contraddistinto l’intera carriera del trentaseienne pilota.

A Brackley Hamilton ha anche conosciuto Nico Rosberg. Invero è un rapporto nato prima, cresciuto nelle serie minori. Nico era quasi un fratello, entrambi lo strombazzavano ai quattro venti. Ma la competizione è un amico malevolo: corrompe, usura. Deteriora. Irreversibilmente. E qui veniamo al succo del discorso. Il pargolo di Keke ha dimostrato che Hamilton è battibile. Serve perseveranza, forza d’animo, capacità di ingoiare rospi di ciclopiche proporzioni per farlo.

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Lewis Hamilton e Nico Rosberg, Mercedes AMG F1 TEAM, si scambiano i complimenti sul podio durante la stagione 2016

Rosberg passa alla storia per aver alzato un titolo in faccia a Lewis. E’ vero, così sono andati i fatti. Ma pochi sottolineano che prima del 2016 Nico le ha prese in lungo e in largo. Senza appello. Ma ha avuto la forza di crederci. Di continuare a farlo nonostante le tranvate ottenute. Ha studiato il suo amico nel frattempo divenuto nemico giurato. Ne ha carpito segreti e ha approntato un programma per batterlo. E fa nulla se alla fine ne è uscito talmente svuotato di stimoli da suggerirgli il ritiro roboante pochi giorni dopo essersi laureato campione del mondo.

Nico Rosberg, lui sì che sa come si fa. Già prima se l’era vista con un altro fenomeno, quel Michael Schumacher rientrante che dovette inchinarsi al biondino. Esiste quindi un metodo scientifico applicato il quale si ha la meglio del campione del mondo in carica? Immagino, in un attacco di vanagloria, Max Verstappen intento a spulciare questo scritto alla ricerca della magica ricetta.

Beh, deluso di deludere l’olandese. Nico è semplicemente andato per la sua strada. E forse questa è stata la carta vincente. Ciò che serve per abbattere il drago. Hamilton, oltre ad essere un pilota di talento cristallino, è anche un fine stratega della parola. Uno che quando la metti sulla psicologia ti logora. Ne sa qualcosa Sebastian Vettel che, nel biennio 2017-2018, è uscito letteralmente svuotato dal confronto serrato col britannico.

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il tedesco quattro volte campione del mondo Sebastian Vettel, a bordo della Ferrari SF1000 durante il fine settimana del Gran Premio del Bahrain edizione 2020

Nella speranza di non attirare troppi strali dalla nutrita schiera di sostenitori del tedesco, non è scorretto asserire che Vettel, soprattutto il Mondiale 2018, lo perde anche perché esce distrutto dalla guerra psicologica che ebbe il inizio l’anno precedente, a Baku, quando perse le staffe e diede una ruotata deliberata alla Mercedes dopo che Hamilton aveva giocato al gatto col topo in regime di Safety Car. E’ chiaro che, alla lunga, Brackley era tecnicamente emersa, ma restano alcune topiche scriteriate del tedesco che si trovò invischiato senza supporto in una guerra di nervi più grande di sé.

Quindi, si può battere Sir Lewis Hamilton? Sì, ancora una volta. L’avversario del momento è Max Verstappen, un altro caratterino niente male. Uno col piede pesante, la lingua biforcuta e un clan alle spalle che gli tira la volata. Sempre. Anche quando sarebbe il caso di abbassare i toni.

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la collisione alla Copse tra la W12 di Lewis Hamilton (Mercedes AMG F1) e la RB16B di Max Verstappen (Red Bull Racing Honda) durante il primo giro del Gran Premio della Gran Bretagna edizione 2021

Il ricordo dell’incidente di Silverstone è ancora vivido. Ancora più accese sono le vestigia delle roventi polemiche che ne sono seguite che sono culminate in un maldestro ricorso inscenato da Red Bull ed infarcito di accuse smodate agli organi che gestiscono la F1. Ecco, questo è ciò che bisogna evitare per annientare, sportivamente s’intenda, Lewis Hamilton.

E forse Max l’ha capito. In Ungheria, pur ritornando sul fattaccio della Copse, l’olandese ha chiuso l’argomento in maniera piuttosto piccata quando gli è stato chiesto, per l’ennesima volta, del contattato con Hamilton. Pur spiegando il suo punto di vista e pur accusando il rivale – cosa assolutamente normale – ha mostrato toni più distesi. Non proprio concilianti, ma quanto meno non belligeranti. L’opposto di quando Red Bull ha fatto e continua a fare. Specie con Helmut Marko, un altro personaggio dalla dialettica tagliente come la spada di un samurai e che sicuramente sta facendo il gioco di Hamilton portando la questione nel suo ambiente di caccia preferito.

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Max Verstappen (Red Bull Racing Honda) e Lewis Hamilton (Mercedes AMG F1 TEAM), passeggiano a stretto contatto di gomito durante il campionato mondiale di F1 2021

F1-Ma come si batte Sir Lewis Hamilton?

Ma Lewis è fallibile. Come tutti gli essere umani. Ha dei punti deboli? Ovviamente. Ma sono ben celati. E sono soprattutto protetti dall’enorme esperienza e dall’abitudine ormai consolidata a vincere. Un fattore, questo, che alla lunga fa molta differenza. Ecco perché è poco saggio inscenare controproducenti duelli a distanza. Hamilton lo batti in pista. Lo sconfiggi nella maniera più semplice – e al contempo – difficile che esista: mettendogli le ruote davanti. Opponendosi in maniera dura. Così come Max aveva fatto ad Imola, in partenza.

Perché, in quella circostanza, Lewis il colpo l’aveva accusato. Tanto da commettere un errore abbastanza grave coperto da una salvifica Safety Car uscita per il contatto al Tamburello tra Bottas e Russell. Hamilton è un pilota che sbaglia poco ormai, ma che incappa ancora in delle giornate no. Che sono particolarmente no. Montecarlo, Austria, Baku sono lì a dimostrarlo fulgidamente. E’ in questi pertugi che l’avversario deve incunearsi. Come seppe fare Rosberg che sfruttò una serie impressionante di partenze sbagliate del rivale. Ma quello era un altro Hamilton. Perché quello del post 2016 è la versione migliorata. Evoluta. Un Lewis 2.0. Ma non esente da topiche.

Ecco che l’impresa che ha dinnanzi Verstappen appare essere ciclopica. Mostruosa. Ma non impossibile considerando le doti tecniche del pilota di Hasselt e la bontà del materiale del quale dispone. Ora serve un reset da parte dell’olandese con annessa ricarica mentale. Perché Lewis è lanciato. E quell’ottavo titolo vuole prenderselo…


F1-Autore: Diego Catalano – @diegocat1977

Foto: Mercedes, Ferrari, McLaren, F1

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