Un groviglio di pensieri si agita nella mia mente dopo il nulla di Spa: non riesco a raccoglierli in una treccia, ma neppure a districarli. Il day after non aiuta, e la grande vergogna continua a campeggiare, tingendo di rosso un livore cupo come il cielo delle Ardenne. Nessun vincitore, neppure morale, e un’unica grande sconfitta: la F1. Allora non resta che riavvolgere il nastro ignorando il sordido scempio, tornare ai fatti del sabato, quando la pista è stata al centro della scena, pur tra svariate e comprensibili polemiche.
Raccontare, argomentare o semplicemente commentare è difficile dopo questo weekend follemente smembrato, la cui cervellotica amputazione ha seguito lo schema della tortura. Non si è trattato di salvare il salvabile, ma di attendere a oltranza, con un masochismo spietato, la resa di un nemico impossibile da battere. La storia ci ha insegnato che Spa-Francorchamps, in certe circostanze, può essere pura estasi o sciagurata ecatombe.
Non ci sono vie di mezzo percorribili e ricercarle è solamente figlio di un atteggiamento pusillanime. Agire o non agire tempestivamente in F1 può fare la differenza per quei venti ragazzi che vorrebbero regalarci solo sfide e che invece si trovano ad implorare – inascoltati – la fine dei giochi. Ma i grandi burattinai fingono di non saperlo.
Show must go on e, se c’è un bell’incidente da celebrare, tanto meglio. Vorremo mica lasciarci scappare la ghiotta occasione di una nuova Spa ’98, vero? Dimenticando il rispetto per quanto accaduto due anni or sono, pur in una soleggiata domenica. Ché le foto di Charles e di Pierre, con il loro commosso pellegrinaggio e i mazzi di fiori, sono solo un mezzo per attirare facili consensi, buonismo da facciata a uso e consumo di like da F1 2.0.
Ma Sebastian non ci sta, da lui arriva il primo e il più veemente no. Vettel, pilota esperto, abilissimo sul bagnato, chiede a gran voce una bandiera rossa che tarda troppo ad arrivare. Giunge quando la frittata è fatta e la McLaren di Norris somiglia a un uovo sbattuto. Un mozzicone spento, corpo monco dopo la violenza di un impatto che si doveva e poteva evitare.
Lando fortunatamente sta bene, ma Vettel non può saperlo e vuole conoscere immediatamente le condizioni del collega. Per sincerarsene accosta la sua vettura al relitto della McLaren e aspetta il cenno del ragazzo che non tarda ad arrivare. Non servono parole, in quel caso. Ne servono molte per commentare l’accaduto e Sebastian non le censura, anzi rincara la dose. Non è possibile rischiare tanto, ignorando il parere di chi conosce le insidie della pista, di chi può evitare lo spettro di una tragedia.
Il tedesco sa che nessuno di loro si tirerebbe indietro, comprende l’istinto dei piloti, legge lo sguardo che si nasconde sotto alla visiera. Prudenza è una parola che non appartiene al vocabolario di Lando o di George, pronti a spingere al massimo contro a ogni logica e al buon senso, pur di non lasciarsi sfuggire la prima grande occasione. Per questo la benedetta bandiera rossa avrebbe dovuto comparire un attimo prima.
I piloti di F1 non sono gladiatori da mandare nell’arena dei leoni. Ci pensano da soli a darsi in pasto alle belve rappresentate dal loro demone. Ecco perché serve una direttiva dall’alto. E per coloro che invocano a gran voce i cavalieri del rischio, mi permetto un consiglio fraterno: guai a travisare la realtà. Ci sono stati anni folli e feroci in cui ogni gara era un braccio di ferro con la morte, in cui compagni, avversari, amici, cadevano sui circuiti come soldati nei campi di battaglia.
E una certa narrazione distorta ha alimentato l’idea che fossero ragazzi spavaldi, inconsapevoli, pronti ad irridere la nera signora. Nulla di più sbagliato. Loro la morte se la portavano accanto, la rispettavano e la temevano. La combattevano con la consapevolezza e senza timore di ammetterne la paura. Correvano sempre, nonostante tutto, poiché era consentito loro di farlo. Correvano accanto a teli neri o sotto al diluvio torrenziale, ma senza mai dimenticare la loro fragilità.
Questo lo sa bene Sebastian, che conosce la storia della F1 come nessun’altro pilota. Per questo le sue parole e il suo gesto assumono il significato di un monito, l’urgenza di un radicale cambiamento, da attuarsi ovviamente nelle sedi opportune, ma anche e soprattutto nella mentalità di alcuni tifosi. Vettel, con la sua spontanea partecipazione, ci ha regalato la misura di quanto è sottile il confine tra il rischio e la tragedia, tra l’errore e la fatalità.
Per questo, più che celebrarlo come effettivamente merita, dovremo principalmente limitarci ad ascoltarlo. Ad ascoltare lui e tutti i piloti che dicono ‘no’. Perché quel ‘no’ non significa vigliaccheria, ma rappresenta solamente il più grande atto di amore e di fiducia nei confronti di questo sport.
F1-Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
Foto: Aston Martin Cognizant Team F1, F1