Al gran banchetto del campionato di F1 2021 ci si sono accomodanti in tanti. Innanzitutto la Red Bull che ha divorato un numero consistente di portate. Poi Mercedes che ha limitato la sua bulimia ma che è sempre là pronta a riempirsi il piatto di vittorie. E fin qua nulla che possa sorprendere. Ma quella in corso è anche la stagione delle occasioni colte al volo.
Ne sa qualcosa la Williams che a Spa, con George Russell, sfiora la vittoria senza praticamente muovere un dito. Lo ha capito Esteban Ocon che bagna il primo trionfo, in Ungheria, approfittando del sonno strategico del muretto Mercedes. Ne è conscia McLaren che ancora giubila per una doppietta che mancava da lunghissimi anni in cui l’oblio ha prevalso sulla luce della gloria.
All’appello manca lei, la Ferrari. La compagine maggiormente blasonata, ricca di storia e più supportata al mondo. Ci sono altre otto occasioni per marcare il tabellino e la speranza è l’ultima a morire. Ma, oggettivamente, deve accadere qualcosa di deviante dalla normale inerzia per vedere il Cavallino impennarsi in cima al podio. Una condizione figlia e frutto di un deficit tecnico che a Maranello portano con sé da tempo. Da troppo tempo. 14 anni senza un titolo piloti, 13 all’asciutto nel Costruttori. Nel mezzo due ere dominate da Red Bull e Mercedes. Dipinte da sprazzi di McLaren e Brawn Gp.
Ferrari è stata capace di imporsi, nella sua lunga storia, 16 volte nella Coppa Costruttori. Ed ha offerto ai suoi piloti auto che hanno portato a 15 titoli: Ascari (2), Fangio, Hawthorn, Hill, Surtees, Lauda (2), Scheckter, Schumacher (5), Raikkonen. Una distribuzione a macchia di leopardo nei 71 anni di attività in F1. L’unica eccezione è rappresentata dal quinquennio 2000-2004 in cui la Scuderia si è affermata aprendo uno dei cicli più lunghi della storia di questo sport.
Osservando il rapporto stagioni disputate/titoli vinti noteremo che i numeri della Ferrari non sono da prima della classe. Ancora, quel che stona per una scuderia tanto prestigiosa, è osservare lunghissime stagioni di digiuno nonostante una continuità che altre realtà non possono vantare. E sappiamo quanto in F1 sia importante la crescita costante e la stabilità dell’organigramma.
E proprio su questo tema si registra uno dei problemi che hanno limitato la forza di questa scuderia. Se facciamo riferimento all’elenco dei direttori tecnici e sportivi che si sono avvicendati con furiosa velocità nel corso degli anni c’è da rimanere letteralmente esterrefatti.
La gestione tecnico-sportiva è spesso apparsa farraginosa, dettata più dall’ansia da risultato che dalla necessità di costruire basi solide sulle quali edificare un castello di vittorie. Teste che volavano senza che si desse loro il necessario tempo per operare. Senza che si offrisse loro il giusto ambiente per far germogliare semi più volte piantati e più volte lasciati inaridire a causa di lotte intestine che hanno sovente caratterizzato le dinamiche interiori di questa squadra.
Ma c’è un momento in cui questo non è avvenuto. Bisogna andare al 1993 quando Montezemolo, avendo avuto carta bianca dalla proprietà torinese, potette affidare e delegare la gestione della scuderia – che veniva da annate disastrose – a Jean Todt. In quegli anni si comprese che la costruzione di un team vincente è un lavoro di lungo periodo, un’opera frutto di programmi ben strutturati e figlia dell’acquisizione di competenze top nel settore.
Il ciclo vincente con Michael Schumacher protagonista è stato innalzato, mattone dopo mattone, nella seconda metà degli anni novanta e poteva dare i suoi frutti già prima se non vi fosse stato l’impatto fatale di Silverstone che appiedò il tedesco per troppo tempo. Quel modello, che tante soddisfazioni ha regalato al popolo rosso, rappresenta una mosca bianca nell’epopea ferrarista. Che è anche, come spiegato, una narrazione di clamorosi, inaspettati e umorali cambi di dirigenza gestionale e tecnica. Che tutt’ora si verificano.
Ma c’è un altro aspetto in cui Maranello palesa delle difficoltà: nella gestione politica dell’area motorsport. Eppure sembra strano visto che si trovano in una innegabile posizione di vantaggio conferita dal diritto di veto. La sua introduzione risale agli inizi degli Anni ’80, quando Enzo Ferrari chiese ed ottenne da Bernie Ecclestone uno strumento che potesse contrastare gli accordi di cartello che i team britannici, la maggior parte in F1, potevano produrre nella stesura delle regole tecnico-sportive. Il vecchio patron della categoria colse un aspetto non secondario: i garagisti britannici andavano e venivano, la Ferrari no.
Il lungimirante Ecclestone si avvide dell’importanza di una presenza costante nel tempo, una realtà che si discostava dalle case automobilistiche che, esaurita la loro mission economica o sportiva, si eclissavano. La Ferrari era è e sarà qualcosa su cui la F1 può contare. Cosa, questa, che ha un valore fondamentale in un contesto di continue mutazioni.
Il veto, però, è un istituto giuridico che Ferrari non ha mai fatto valere nelle contrattazioni che davvero contano. Si pensi all’introduzione dell‘era turbo-ibrida. Montezemolo si presentò al tavolo delle trattative in una posizione di forza che si trasformò in una di estrema debolezza: la Scuderia accettò di perdere tutti i suoi punti di forza firmando sotto un contratto che prevedeva la morte dei propulsori aspirati, l’annullamento totale dei test privati nonostante il Cavallino possedesse tre piste e una squadra prove invidiata da tutto il mondo, e lo spostamento della progettazione e dello sviluppo delle monoposto sul versante virtuale. Aspetto nel quale sembra ancora arrancare.
Quello in possesso del Cavallino Rampante – lo ha descritto la storia – è un diritto di veto di facciata. Annacquato. Un cannone con le polveri bagnate. Ma c’è un altro aspetto che mal funziona nella gestione politica delle cose ferrariste. Arriviamo dritti alla sottoscrizione del nuovo Patto della Concordia definito pochi mesi fa. Il documento, oltre a rinnovare il succitato veto, offre un’ulteriore garanzia al team modenese: concede bonus economici derivanti allo status di squadra storica.
Cosa vuol dire? Semplice. La Ferrari, quando vengono suddivisi gli introiti commerciali, è la compagine che percepisce la fetta più pingue della torta. Prosegue, dunque, il mantenimento di una posizione politica privilegiata che sostanzialmente perdura dagli anni ottanta. Un vantaggio evidente che non si tramuta in vittorie in pista. E questa è la contraddizione che più brucia ai tifosi e che dovrebbe infastidire anche i vertici societari.
Ma accade davvero? Exor, l’azionista di maggioranza, è realmente preoccupato per la mancanza di risultati che dura da troppo tempo? Aleggia un sospetto tra i tifosi più integralisti: Ferrari è più interessata ad imporsi o le basta partecipare al banchetto visto che da questo ottiene le portate più prelibate in termini economici? Forse, con un pizzico di malizia, si può sospettare che gli ottimi risultati nelle vendite delle vetture stradali hanno rimescolato le priorità della proprietà?
Congetture, illazioni, sospetti che non avranno mai una conferma ufficiale ma che sorgono vista la mollezza con la quale Ferrari siede ai tavoli tecnici e che fa da contraltare alla durezza diplomatica che si riscontra quando di mezzo c’è la “vil pecunia”. La scrittura del nuovo e vantaggioso Patto della Concordia è arrivata dopo una lunga lotta con Mercedes che ne è uscita sconfitta. Una perdita che, però, non si riverbera sulle prestazioni in pista. Cosa che, a fattori invertiti, accade invece in Ferrari.
Agli appassionati, ovviamente, le questioni economiche non interessano. Il campionato si disputa in pista ed è là che il tifoso vuole vincere. Non di certo è attratto dai trionfi nelle stanze dei bottoni. Tanto meno se questi non hanno un naturale sfocio nelle attività sportive.
E se fossero proprio il bonus storico e il diritto di veto quelle ancore che non permettono alla Rossa di spiccare il volo? In una F1 nella quale l’attuale dirigenza sembra, ad osservarne le mosse, non fare mistero dell’importanza degli introiti economici, cosa accadrebbe se questi dovessero guadagnarseli sul campo? Se gli emolumenti non dipendessero anche e soprattutto dai diritti storici acquisiti ma solo dalle vittorie in pista, la Scuderia si impegnerebbe di più e più convintamente a sconfiggere gli avversari? La domanda è volutamente maliziosa.
L’esempio da seguire potrebbe essere quello della Mercedes, un team che ormai si autofinanzia grazie ad un dominio quasi incontrastato figlio di affermazioni politiche alle quali sono seguite prima quelle tecniche e poi quelle sportive. Il modello anglo-tedesco è indubbiamente efficace: genera guadagni da ritorni commerciali che sfiorano il miliardo di euro annuale e, contestualmente, consente alla squadra di rimanere issata ai vertici della categoria.
Va anche specificato che la Ferrari, da qualche anno, sta provando a darsi una struttura più stabile. Nonostante annate infauste Mattia Binotto è ancora saldamente al timone della nave. Un segnale chiaro di un’inversione di rotta gestionale che però deve dare i suoi frutti. Il pubblico affamato di vittorie è disposto ad attendere ancora per poco e il 2022 sa tanto di deadline.
Non fanno mistero, a Maranello, che molta fiducia si ripone nel novo corpus normativo che debutterà tra pochi mesi. Ferrari non può permettersi di presentarsi ai nastri di partenza ancora attardata perché l’eventuale indugio, stante il congelamento tecnico delle power unit fino al 2025 (o forse 2026), potrebbe rappresentare una zavorra troppo pesante per essere trascinata. La Rossa ha fatto all-in sulle nuove regole. Un azzardo che deve pagare altrimenti, la storia ce lo dice, altre teste potrebbero rotolare alimentando un circolo vizioso che ha portato a lunghi periodi di magre prestazioni.
F1-Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: Scuderia Ferrari