Ormai sminuire Vettel è una squallida costante, un giochino reiterato tra risatine e ironia di terz’ordine in F1. Ogni minima sbavatura viene notata e messa sotto la lente d’ingrandimento, ogni errore condannato senza appello. Quasi Sebastian si portasse addosso una sorta di peccato originale, una pena da scontare negli anni. Colpevole a prescindere, senza possibilità di redenzione. Non bastasse la gogna dei social, di per sé relativa, date le molteplici e spesso affatto qualificate competenze dei naviganti, si aggiungono talvolta opinioni negative da parte di illustri professionisti, che non gli risparmiano aspre critiche.
Verrebbe da domandarsi il perché di tutto quest’astio, sintomo peraltro di scarsa riconoscenza per quanto Seb ha offerto alla F1 in questi anni. Specie in Italia, Vettel sconta il fatto di non essere diventato campione con la Ferrari. Uno sgarbo che non si perdona, indipendentemente da quanti e quali siano stati gli sforzi profusi. Un po’ come accadde ad Alonso nel 2014, contestato da molti, apostrofato come perdente.
All’epoca lo spigoloso carattere di Fernando e la sua brutale schiettezza hanno rivestito un ruolo importante nel far pendere l’ago della bilancia a favore dei detrattori. Ma, quanto a Sebastian, le cose stanno in modo diverso: il tedesco è sicuramente più conciliante e affabile, mai alla ricerca della polemica, sempre pronto a schierarsi dalla parte della squadra.
Allora perché Vettel è costantemente un osservato speciale? Perché i suoi quattro titoli con Red Bull vengono costantemente ridimensionati? Di lui si dice spesso che ha vinto solamente grazie alla vettura, dimenticando però che nessun pilota, neppure il migliore, può laurearsi campione qualora non disponga di una monoposto competitiva. Hamilton non ha forse trionfato anche grazie all’eccellenza di Mercedes? Ovviamente. E allora non si capisce perché, con una frequenza inquietante, si senta il bisogno di affermare che ‘Vettel ha vinto grazie a un’astronave‘.
La stagione 2018 ha rappresentato lo spartiacque nella carriera di Sebastian. Prima di allora il talento del tedesco veniva riconosciuto e lodato. Vettel, va ricordato, ha compiuto mirabili imprese nel 2015 e nel 2016, quando ha ereditato una Rossa scorbutica e affatto compiacente. La vittoria in Malesia da neo-ferrarista ha avuto il sapore di un miracolo e la suggestione di una promessa. Seb da Heppenheim sembrava veramente essere l’uomo della svolta, pronto a caricarsi sulle spalle il destino del Cavallino, spronandolo nuovamente a galoppare. Invece un po’ di cose sono venute meno durante la sua permanenza in Ferrari.
Nel 2017 tutti riportano alla mente con ghigno beffardo il terribile start di Singapore, sorvolando sui tanti problemi di affidabilità che hanno costretto la Ferrari alla resa. Per quanto riguarda l’anno successivo, invece, l’analisi dei fatti risulta più difficile. Ma, anche in questo caso, la maggioranza estrae dal cilindro il tristemente famoso incidente di Hockhenheim, rafforzando la tesi grazie al testacoda Monzese.
Vettel, va detto per onestà intellettuale, ha commesso degli errori, alcuni dei quali pesanti in ottica iridata. Senza quei passi falsi avrebbe potuto rendere più difficile la vita a Hamilton e di certo prolungare la sfida, ma non avrebbe comunque potuto vincere il mondiale. Troppa la differenza tra le forze in campo nella seconda metà della stagione. Mercedes, partita in sordina, ha poi saputo recuperare e surclassare la Rossa in termini di prestazioni.
Ma molti, tra i tifosi, analizzano i fatti da un’altra prospettiva e rincarano la dose aggiungendo il noto cavallo di battaglia del confronto con Leclerc. Charles in effetti ha brillato, ma, a mio modesto avviso, esclusivamente perché si tratta di un fuoriclasse. Sarebbe un errore valutare il talento del monegasco esclusivamente rapportandolo al rendimento di Vettel, specie considerando che si è trattato di annate interlocutorie, in cui la Rossa non ha saputo -ad eccezione di qualche gara nella seconda parte del 2019- proporsi come realmente competitiva. Quindi non è stato Sebastian a mancare, piuttosto è stato Charles a stupire.
Quest’anno Vettel ha voltato pagina abbracciando l‘Aston Martin. Le premesse sembravano buone, ma la vettura non ha saputo confermare la competitività della Racing Point da cui è derivata. Ciò nonostante Sebastian ha mostrato più volte il guizzo del campione, conquistando due podi (sebbene uno dei quali cancellato da squalifica) e disputando ottime gare. Eppure, quanto il tedesco fa di buono pare non essere interessante agli occhi dei più.
Basta considerare, a questo proposito, l’ottima prestazione di Austin. Vettel, confinato sul fondo dello schieramento causa sostituzione del propulsore, recupera a suon di sorpassi fino ad ottenere la decima posizione finale, regalandoci la manovra più bella del gran premio mentre battagliava con Russell. Lo fa nell’indifferenza generale, perché è più facile puntare il dito contro l’errore.
Piaccia o no, oramai, Vettel fa rumore solo quando sbaglia. In quel caso i titoli si sprecano e la grancassa dei detrattori si amplifica. Sebastian fa più comodo come carne da macello: questa è la triste realtà. Meglio la narrazione del pilota finito, della promessa mancata, del professionista sopravvalutato. La critica vende più della lode, il biasimo accende più dell’applauso.
Da sempre è così e non ho la presunzione di cambiare il mondo attraverso le mie parole. Mi basterebbe solo che aiutassero a considerare i fatti nella loro complessità, riportando una visione più equa, scevra da pregiudizi, non viziata da chiassosa faciloneria. Perché raccontare la F1 deve essere un privilegio, non una mercificazione.
F1-Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
Foto: Aston Martin Cognizant F1 Team
BRAVO