“C’era una volta… – Un re!” – Dicono e diranno lettori e spettatori, dopo questo mondiale di F1, così teso, esasperato, inaspettato. Ma a guardare bene la vicenda, diamo ragione a Collodi, questo incipit non è affatto veritiero. C’è un re, indiscusso, che abdica per circostanze discutibili. Ma c’è soprattutto un nuovo protagonista, un pezzo di legno. Un novello eroe, algido e imponente, a dispetto dei soli ventiquattro anni. Un legno plasmato a immagine e somiglianza di un campione. Max Verstappen è questo, il Pinocchio di mastro Jos, un burattinaio che ha saputo generare l’eccellenza a suon di colpi d’accetta, uno scultore crudele che ha cesellato ogni fibra della sua creatura.
Mai un paese dei balocchi per Max, il bimbo nato adulto, che i regali doveva farseli da solo. A suon di vittorie e di piazzamenti, pena un biasimo che non avrebbe mai potuto cancellare. Il piccolo di Hasselt non ha avuto infanzia, solo circuiti. Con quella cattiveria ci è nato, poiché c’era in ballo la sopravvivenza. L’ha fatta propria al pari dell’indifferenza, perché non c’è nulla di più pericoloso di mostrarsi fragile. Per questo, l’olandese volante, non ha mai potuto volare, tranne che in pista.
Ha addomesticato le regole calibrandole alla sua sete, avida e ribelle, propria di chi non ne ha mai abbastanza. Le ha sovvertite, spesso ignorate, con una strafottenza 2.0, che non nasce dalla contestazione, ma è diretta espressione di un modo e di un mondo solo suo, nel nome del padre. Si è detto tanto a proposito di questo rapporto, descrivendolo malsano e conflittuale. Invece Max è semplicemente stato generato da un pilota incompiuto, che ha venduto l’anima al diavolo, pur di creare il suo capolavoro: un campione impavido che non ha timori.
Un leone che ruggisce in pista, fiero e caparbio, senza tentennamenti, senza cedere il fianco all’emozione. Eppure un figlio devoto, pronto a fare le fusa, a rivendicare un mondiale vinto nel nome di entrambi. Verstappen è questo, un prodotto costruito per vincere, nato per onorare, che quasi si scusa della propria commozione, perché non gli può appartenere, in quanto scolpito in una materia dura e inanimata.
Dall’altra parte del ring c’è Lewis, ormai uomo. Risolto e risoluto, pronto ad evolvere giorno dopo giorno. Un’antitesi perfetta di personalità e modo d’intendere la vita. Eppure, anche nella zona grigia Mercedes, palpita il cuore di un padre. Un uomo più semplice, forse più docile, che ha preso il figlio per mano, accompagnandolo nella sua avventura. Nessun imperativo, tanti sacrifici. Mai una prevaricazione, solo infinita dedizione. Anthony da Grenada non ha mai calcato la pista, si limitava a condurre la sua esistenza sui binari, sognando per suo figlio l’estasi psichedelica della velocità.
Lewis ha saputo affrancarsi dal genitore, è germogliato oltre. Senza allontanarsi, prendendone le distanze. Un percorso di crescita necessario, ma non a senso unico. Max vuole Jos vicino, a condividere ogni momento. Attimi che il giovane leone vede come tributi, come un giusto risarcimento. Entrambi figli delle stelle, di un destino cercato e voluto, costruito a suon di sacrifici. Entrambi resi nemici dalla bandiera a scacchi, da un mondiale infinito e da un ultimo giro troppo breve per contenerne la foga.
Dopo la bandiera a scacchi, più che mai simile a una ghigliottina, è il tempo degli abbracci. Gioiosi e sontuosi per Verstappen, al suo mondiale numero uno. Avari e amari per Hamilton, che ha mancato l’ottavo. Solo una cosa li unisce, in una domenica storta di cui si parlerà a lungo: la spalla di un padre. Con cui esultare o recriminare, su cui piangere o sbocciare. Un sogno infranto e uno raggiunto, un pugno e una carezza, questa volta a parti invertite.
Ma Lewis comprende e incassa, fa il primo passo, come un fratello maggiore dopo una scazzottata. Max accetta, quasi riluttante, ancora troppo ebbro dal successo, ancora troppo intriso nell’adesso. Che è il suo momento supremo. Il tempo nuovo in cui il burattino scolpito nel legno è finalmente diventato uomo.
F1-Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco
Foto: F1