F1 – La settimana scorsa Max Verstappen e la Red Bull hanno annunciato un prolungamento di contratto decisamente lungo (fino al 2028, nda) basato su cifre molto importanti. Un legame che, come abbiamo spiegato in un focus dedicato (leggi qui), dà chiare indicazioni su quali siano i programmi e le intenzioni della scuderia di Mateschitz.
Il talento olandese è un figlio dell’ecosistema Red Bull. E’ stato svezzato e guidato in un percorso di crescita costante che l’ha portato, a 24 anni e dopo sette stagioni di F1, a laurearsi campione del mondo. Un pilota “costruito” in casa, un frutto di un modello organizzativo molto solido che ora è messo in discussione da Verstappen stesso.
Cerchiamo di spiegare quella che sembra una contraddizione ma che invero non lo è. E’ universalmente riconosciuto che la scuderia di Milton Keynes abbia il programma giovani più efficace della F1. Una fitta intelaiatura di osservatori che fa capo ad Helmut Marko, il terminale ultimo di questo sistema che negli anni ha dato la possibilità a molti driver di esprimersi in diverse categorie. Ma fino a che punto?
Negli ultimi tempi il meccanismo è parso scricchiolare. Dopo il campionato 2018 in cui Daniel Ricciardo e Max Verstappen non coesistettero proprio alla perfezione, la scuderia austriaca decise, dopo la partenza dell’australiano, di far diventare il figlio di Jos il perno intorno al quale far ruotare il team. Motivo per il quale, l’anno successivo, la seconda Red Bull fu affidata a Pierre Gasly. Con risultati disastrosi che portarono a metà stagione all’avvicendamento interno col francese ad andare a Faenza ed Alex Albon a fare il percorso inverso verso Milton Keynes. Con esisti leggermente migliori ma non da urlo.
Il thailandese fu riconfermato per il 2020 uscendo però “macinato” dal confronto interno con un pilota straordinariamente veloce e consistente che, inoltre, gode di uno status indiscusso da prima guida. Ragion per cui, nel campionato passato, la scuderia diretta da Chris Horner ha stabilito di spezzare con la politica aziendale votata alla valorizzazione del prodotto interno pur puntare sull’esperienza di Sergio Perez che si è perfettamente calato nei panni del provetto scudiero meritandosi il rinnovo per il 2022. Anno in cui, con ogni probabilità, osserverà ancora il compagno di squadra molto da lontano in termini cronometrici.
Questo “Verstappen-centrismo” può, alla lunga, scoraggiare i giovani piloti dall’associarsi al mondo Red Bull? A guardare la storia di Pato O’Ward la risposta è affermativa. Il conducente messicano, vincitore del campionato IMSA del 2017 e attualmente in IndyCar col team Arrows McLaren, aveva fatto parte del Red Bull Junior Team. Parliamo di un talento cristallino che Woking ha “raccolto” dopo che Red Bull lo ha mollato e che sta conoscendo un percorso di crescita molto importante tanto che Zak Brown ha intenzione di concedergli, anche grazie al regolamento che lo impone, qualche turno di prove libere in F1 in questo nascente 2022.
Proprio l’amministratore delegato della McLaren ha speso parole non dolci nei confronti dei rivali di Milton Keynes quando ha definiti “colpevoli”, a parte il caso di Max Verstappen, di essersi lasciati sfuggire dalle mani diversi di grandi piloti: “Penso ne abbiano rovinati molti che ritengo essere molto bravi. Non state concesse loro abbastanza opportunità“.
Brown, pur ammettendo che la loro politica li ha portati a vincere il titolo, ha specificato che in Red Bull hanno un approccio piuttosto brutale ai propri consociati. E cita nomi illustri di piloti “maltrattati” come Carlos Sainz e Daniel Ricciardo per finire a Vettel, Albon e Pierre Gasly la cui carriera è rinata solo dopo il declassamento in Alpha Tauri.
Quindi, per concludere, il modello di gestione di Red Bull può realmente dirsi problematico o addirittura fallimentare? Forse potrebbe dirsi per il lungo periodo, ma se, alla fine, ha portato a strappare il titolo ad una corazzata come Mercedes tanto rovinoso non è. Non credete?
F1-Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto:F1, McLaren F1, Oracle Red Bull Racing