La stagione 2022 di F1 sta per emettere i verdetti iridati in largo anticipo rispetto alle previsioni della vigilia, in modo inatteso rispetto allo spettacolare equilibrio tra Red Bull e Ferrari apprezzato nella prima parte del mondiale. Molto è stato scritto e analizzato in merito al cambio di passo effettuato dalla Red Bull dopo la pausa estiva e che ha letteralmente spiazzato la concorrenza. Nel motorsport, il successo è la logica conseguenza del livello di eccellenza raggiunto da tutte le aree di un team.
Realizzare la migliore monoposto non offre alcuna certezza di coronare obiettivi tecnicamente possibili. Una lezione avvalorata dalla storia stessa della Formula 1. Basti pensare al sogno iridato di Michele Alboreto nella stagione 1985. A Maranello pensarono bene che per migliorarne le prestazioni bisognava sostituire le turbine e, di conseguenza, il fornitore. Si passò dalle tedesche KKK già presenti anche su McLaren, alle americane Garret. Fu l’inizio di una lunga serie di inconvenienti tecnici che consegnarono il primo titolo mondiale ad Alain Prost.
Un altro esempio relativamente più recente è la vittoria del secondo titolo mondiale di Michael Schumacher nel 1995, stagione in cui riuscì ad avere la meglio sulla più performante Williams FW17. Perché aprire il magico libro di storia della Formula 1? E’ un interessante esercizio per analizzare la stagione della Ferrari da un altro punto di vista.
Nelle ultime sei stagioni il team di Maranello ha progettato due monoposto che ai nastri di partenza sono state indiscutibilmente superiori alla concorrenza. Si tratta della SF-70H e della F1-75. La storia di queste macchine, totalmente diverse in virtù del nuovo quadro normativo, è incredibilmente simile. Una prima parte di campionato brillante seguita da un progressivo downgrade prestazionale rispetto ai diretti concorrenti.
F1. L’area tecnica Ferrari sa progettare auto vincenti
Non è un caso che, nelle ultime sei stagioni, la Ferrari abbia vinto la gara inaugurale del mondiale in tre occasioni. La statistica conferma che l’area tecnica del Cavallino Rampante è in grado di realizzare monoposto competitive al “Pronti via”. Contrariamente al passato, i primi update apportati alla F1-75 hanno funzionato a dovere, dimostrando che l’atavico problema della “correlazione dati” sia stato risolto.
Sarebbe riduttivo ricondurre attribuire gli insuccessi alle ricorrenti defezioni strategiche in pista o ai problemi di affidabilità della Power Unit, volutamente estremizzata nei suoi concetti per recuperare il gap rispetto ai principali competitor. Probabilmente è giunto il momento di chiedersi se il timone della Scuderia Ferrari è stato assegnato ad una figura dalla indiscutibile competenza tecnica che tuttavia non sembra esercitare i valori di leadership universalmente riconosciuti nei colleghi di Red Bull e Mercedes.
F1. Il canto del cigno del modello Marchionne ?
L’ingresso di Marchionne nel mondo Ferrari è stato fuori dagli schemi, come nel suo stile. Nel corso del Gran Premio di Monza del 2014 il manager Fiat, ospite ai box, licenziò sostanzialmente in mondovisione Luca Cordero di Montezemolo, artefice del dominio Ferrari all’alba del terzo millennio. Insomma non proprio l’ultimo degli arrivati.
Via Montezemolo, il manager italo-canadese costruì una squadra che puntava sugli italiani. Vennero epurati tecnici che avevano fallito (James Allison in primis, nda) e le responsabilità passarono a giovani ingegneri italiani come Mattia Binotto, Simone Resta ed Enrico Cardile.
A distanza di sei anni dalla rivoluzione tricolore tracciata Marchionne, il livello di competitività della Scuderia Ferrari è ormai plafonato. La inarrestabile crescita di Red Bull e il verosimile ritorno di Mercedes nelle posizioni che le competono non rappresentano il miglior prologo per la stagione 2023. Le foto degli ultimi successi iridati della storica scuderia italiana stanno ingiallendo proprio come quelle di Jody Scheckter prima del trionfo di Michael Schumacher nell’anno di grazia 2000.
F1. L’umiltà di saper riconoscere la superiorità dei rivali come un possibile valore aggiunto.
Nell’ultimo decennio il Cavallino Rampante ha accompagnato alla porta tecnici di indiscusso valore che hanno contribuito alle fortune della Mercedes come James Allison, Aldo Costa o in esilio nei team satellite come accaduto a Simone Resta. La sensazione è che a capo della GES non alberghi la necessaria umiltà nel saper riconoscere la superiorità della concorrenza in ruoli chiave. Umiltà che consentì a Luca Cordero di Montezemolo di considerare la candidatura di Jean Todt, fortemente caldeggiata da Bernie Ecclestone, come team principal della Ferrari che all’epoca navigava in acque a dir poco turbolenti.
Nelle dichiarazioni di John Elkann rilasciate nel weekend di Monza, si evince che la linea tricolore potrebbe essere al capolinea anche per Mattia Binotto, nonostante il riconoscimento dell’importante recupero tecnico sui principali competitor.
F1. E se al modello Marchionne seguisse il modello Montezemolo?
Quattro anni è un periodo di osservazione ampio per giudicare l’operato di un manager. Se ci basassimo esclusivamente sui risultati, il mandato di Arrivabene è di gran lunga superiore rispetto a quello di Binotto. Dal 2015 al 2018, sotto la guida del manager bresciano, la Ferrari ha colto 14 vittorie contro le 7 di Mattia Binotto da team principal Ferrari dal 2019 ad oggi.
In tal senso tornano alla mente le parole di Arrivabene a valle di un grave errore strategico del team nel corso delle qualifiche del Giappone del 2018: “È vero che siamo una squadra giovane, che siamo tutti impegnati per fare del nostro meglio, ma a volte serve un po’ più di esperienza e furbizia. A volte devi saper cogliere le occasioni quando si presentano, avere quel sesto senso e quello spirito ‘corsaiolo’ che a noi manca“.
Dichiarazione di un’attualità sconcertante che certifica un vuoto di cui ancora oggi si continua a disquisire. E se il ritorno sul tetto del mondo richiedesse l’adozione del “modello Montezemolo”? L’arrivo di Jean Todt e successivamente di Michael Schumacher furono decisive nel far comprendere al Presidente Ferrari che la via maestra per ritornare al successo era vincolato all’insourcing di buona parte del team Benetton.
Per assurdo il fascino esercitato dalla Ferrari è inversamente proporzionale ai successi. Stimolo che contribuì in modo decisivo al passaggio di Ross Brawn e Rory Byrne dal team di Flavio Briatore alla corte di Maranello. In particolare Rory Byrne sostituì uno dei più grandi progettisti della Formula 1, John Barnard, che nel secondo periodo di permanenza in Ferrari non riuscì a realizzare un progetto vincente.
Probabilmente resterà una suggestione, ma se John Elkann decidesse di applicare in futuro il “metodo Montezemolo” l’identikit del futuro team principal corrisponde ad un solo volto: Christian Horner.
Autore: Roberto Cecere – @robertofunoat
Foto: F1, Scuderia Ferrari