Mancano pochi giorni e l’addio di Mattia Binotto alla Ferrari F1 sarà definitivo. In questo periodo di transizione il manager reggiano sta operando in regime di disbrigo degli affari correnti, per usare un’espressione tipica della politica. Lavorando ancora per la squadra, quindi, ha presenziato alla riunioni tecniche in vista del 2023 ed ha funto da rappresentante al Consiglio Mondiale del Motorsport. Ma i suoi compiti si affievoliranno sempre più fino a sparire il 31 dicembre, giorno in cui dovrà salutare per l’ultima volta staff e uffici.
Per la Ferrari si apre dunque una fase nuova in cui dovranno entrare in gioco due sostituti: un capo della Gestione Sportiva e un direttore tecnico; figure che vanno a sdoppiare i ruoli incarnati nella persona dell’occhialuto ingegnere. Che dovrà pensare al suo domani. Perché impensabile che un manager che ha guidato la Rossa per 4 anni e che è a Maranello da 28 non possa non trovare un impiego altrove. Che sia in Formula Uno o in qualsiasi altro ambito del sport del motore.
F1. Toto Wolff “sbatte” le porte in faccia a Mattia Binotto
Una cosa è certa: Binotto non passerà in Mercedes. Il travaso tecnico-umano tra Modena e Brackley ha spesso funzionato. Aldo Costa, James Allison, Lorenzo Sassi i nomi più illustri che hanno effettuato il cambio di casacca. Competenze che in Ferrari hanno fatto bene ma senza ottenere titoli pesanti e che in Inghilterra hanno contribuito a scrivere la storia di un team che detiene quel record di vittorie consecutive che difficilmente verrà attaccato nei prossimi anni.
“Non vedo Mattia alla Mercedes. C’è stato troppo veleno tra me e lui negli ultimi due anni. Non sarebbe possibile – ha spiegato Toto Wolff a “Beyond the Grid” – Ma lo vedo bene in altre squadre. È un uomo che conosce molto bene la Formula 1 e forse potrebbe trovare un buon ruolo sulla griglia di partenza in futuro. Ci sono molte destinazioni che sono attraenti al momento”.
Poche righe che evidenziano due concetti solidissimi: il primo è che non c’è trippa per gatti in quel di Brackley; il secondo è che il rapporto tra i due non è stato impostato alla serenità. Il processo di costruzione delle regole 2022 ha messo Binotto e Wolff spesso l’uno contro l’altro alimentando un clima di tensione che si è acuito in questo mondiale in due tappe chiave.
Dai test invernali del Bahrain in cui l’esponente ferrarista ha minacciato di ricorrere alla FIA per quei coni antintrusione che sfidavano “lo spirto del regolamento” sino ad arrivare alla partita sulla direttiva tecnica 039 che ha visto la Ferrari soccombente in un duello politico in cui Mercedes è uscita rafforzata in chiave 2023.
F1. Ferrari e quella pressione che “uccide”
Forse proprio questa difficoltà di Binotto di giocare su certi tavoli ha contribuito a creare quel substrato nel quale sono germogliati i semi del divorzio. Il tecnico non si è mai mosso con troppa sagacia quando c’era da sciorinare l’ars politica, materia nella quale Wolff è cattedratico.
“Mattia e io abbiamo avuto i nostri momenti nel corso degli anni e nel 2022 è stato chiaro che era sotto pressione. Se sei il capo di una squadra come la Ferrari, la cosa migliore è avere un buon contratto per quando te ne andrai. La sua partenza era inevitabile, ma ha resistito più a lungo di quanto mi aspettassi“.
L’ultima affermazione è piuttosto sibillina. Da un lato potrebbe essere letta in chiave di scherno e di poco rispetto per il lavoro del un collega, dall’altro potrebbe avere la valenza della lode. E probabilmente è proprio questa la chiave di lettura corretta perché Maranello è un ambiente ostico e logorante. Wolff, quindi, riconosce l’onore delle armi al collega-nemico che ha dovuto operare in una sorta di covo di serpi gettando la spugna dopo tentativi di imporsi. Una tenacia non ripagata ma che potrebbe servire in futuro per altre e più soddisfacenti avventure professionali.
F1. Wolff boccia il modello Ferrari dell’uomo solo al comando.
“In Ferrari c’è più pressione che in qualsiasi altra squadra, perché si rappresenta un intero Paese. Il sostituto di Mattia deve essere un grande talento manageriale italiano, che abbia potere in altri settori e allo stesso tempo sia abbastanza intelligente da guidare una squadra così grande. Bisogna controllare lo sport, i regolamenti, l’organo di governo, i diritti commerciali e i rivali. Tutti questi problemi si trovano nella gabbia del paddock. Il fatto che tu sia un buon manager al muretto non ti garantisce di essere altrettanto bravo in questi aspetti“.
E in questo pensiero è sintetizzata la più lucida fotografia di cosa non ha funzionato in Ferrari. E non per colpa dell’esecutore Binotto, ma a causa di una presidenza poco addentrata alle cose della F1 e che ha creduto e ritenuto che un solo uomo al comando potesse gestire ogni singolo aspetto. Un paradigma fallimentare che incastra John Elkann alle sue responsabilità prima di mettere l’ormai ex n°1 della Gestione Sportiva sul bando degli imputati.
Il modello operativo giustizialista della Ferrari, fatto di eccessiva e controproducente discontinuità, è stato oggetto di critiche anche da un altro grande manager della F1: Chirs Horner. “Credo che il prossimo sarà il sesto team principal di fronte al quale mi siederò da quando sono alla Red Bull. È stato ovviamente difficile per lui. Avevano una grande macchina quest’anno, erano sicuramente molto competitivi“.
Poche e stringate parole che si legano a quelle espresse da Toto Wolff. Binotto non è esente da colpe. Una comunicazione mai troppo chiara (leggi qui), l’aver definito obiettivi poi non perseguiti con costanza e l’aver puntato tutte le fiches sul nuovo contesto regolamentare salvo poi alzare bandiera bianca troppo presto sono elementi che hanno pesato nella separazione. Chiaramente è mancato il supporto da parte di chi comanda davvero.
La sensazione, sposando la visione di Leo Turrini che ne aveva parlato in esclusiva ai nostri microfoni (qui per leggere l’intervista), è che in Ferrari non serve cambiare uomini seguendo una schema impazzito; è necessario piuttosto modificare un modus operandi, ritornando alla stagione in cui Maranello dominava grazie ad un direttore della GES, leggasi Jean Todt, che aveva pieni poteri gestionali con il totale supporto della presidenza. Un’intelaiatura in cui le cose tecniche erano affidate a Ross Brawn che non doveva sovraintendere a fatti politico-amministrativi. Una semplice ed efficace divisione del lavoro per spiccare il volo.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: F1TV, Mercedes AMG, Scuderia Ferrari, Oracle Red Bull Racing