Il mondiale di F1 2023 è oramai alle porte e lo scontro si terrà su un campo di battaglia noto. Gli “eserciti” del Circus stanno organizzando una guerra tecnica ben più grande e la contesa è destinata a farsi caldo dal 2026, anno in cui sarà operativo il nuovo contesto motoristico che prevede l’abolizione dell’MGU-H e l’aumento della portata dell’altro moto generatore che rimarrà presente: l’MGU-K. I soggetti coinvolti in questa sfida globale potrebbero essere sette.
La FIA conferma che sono sei i motoristi che hanno aderito ai regolamenti che entreranno in corso di validità dal 1° gennaio 2026. Si tratta di Alpine Racing, Audi, Ferrari S.p.A., Honda Racing Corporation, Mercedes-AMG High Performance Powertrains Ltd e Red Bull Ford. Un settimo potrebbe entrare quando sarà ratificata la discesa in campo di Andretti che dovrebbe usufruire di un paio di anni di propulsione Alpine per poi passare agli autocostruiti Cadillac. Uno scenario di probabile realizzazione.
Honda: un marchio storico del Circus iridato
Dopo l’accodo strategico tra Red Bull e Ford, che chiaramente coinvolge anche AlphaTauri, il destino del motorista giapponese sembrava essere segnato: un lento scivolar via dalla Formula 1. E invece no. La presenza al tavolo dei Costruttori 2026 è un segnale forte che potrebbe precedere un ritorno di fiamma clamoroso, un binomio che è diventato icona del motorsport: McLaren-Honda. Ma andiamo per gradi e vediamo, proprio interrogando la storia, perché la casa della “Grande H” è legata a doppia mandata con il Circus.
La storia del brand di Sakura in Formula Uno affonda le sue radici negli Anni Sessanta, quando disputò cinque stagioni. A partire dal 1964. La RA271, la prima monoposto costruita dai nipponici, era equipaggiata con un motore V12 da 1500cc e fu la sorella maggiore di quella RA272 che, nel 1965, ottenne la prima vittoria in F1 con Richie Ginther, nel Gran Premio del Messico.
Il trionfo del pilota statunitense fece da preludio ad un’altra vittoria, quella di John Surtees nella gara di Monza, nel 1967. Ma il programma racing del costruttore asiatico non decollò e, dopo un mondiale 1968 molto deludente, i vertici di Tokyo decisero di abbandonare la serie iridata. Ma non per sempre. L’obiettivo era prepararsi al meglio per ritornare pronti. E vincenti. Da dominatori assoluti.
Dopo un silenzio di 13 anni, periodo in cui gli ingegneri giapponesi lavorarono alacremente ad un progetto destinato a fare storia, Honda fece parlare nuovamente di sé. E non come team a tutto tondo, ma come fornitore di motori che avrebbero segnato in maniera indelebile gli anni ’80 i primi ’90. Superfluo ripercorrere tutte le vittorie ottenute dai motori della casa asiatica, basta ricordare quali sono i nomi che si legano all’azienda giapponese: Tyrrell, Lotus, Williams, McLaren come team.
Rosberg, Mansell, Piquet, Prost e Senna come piloti. Autentiche icone della F1 che sono potute diventare tali anche grazie alla spinta e al lavoro della Honda che dimostrò al mondo intero come si producevano unità motrici vincenti, in grado di battere le più blasonate Ferrari, Ford, Porsche e via citando.
Mugen, Bar e il nuovo abbandono
Poi, quasi a sorpresa, dopo sei titoli costruttori e cinque tra i piloti, l’ennesimo ritiro quando il costruttore era ancora sulla cresta dell’onda. L’abbandono non fu totale: gli ingegneri della Honda contribuivano a sviluppare i motori Mugen che comunque portarono a casa tre vittorie di tappa tra gli anni ’90 e i 2000.
Ma la fame di corse della realtà industriale di Tokyo non era sopita e, all’alba del nuovo millennio, ecco l’accordo di fornitura per il nascente team British American Racing. Una storia che portò ad un secondo posto nel Costruttori, nel 2004. Ma che consegnò alla dirigenza ben poche soddisfazioni.
Che furono magre anche con l’altro team cui Honda forniva i motori: la Jordan. In questa nuova esperienza arrivò una sola, magra, vittoria con Jenson Button, nel 2006. Un ritorno d’immagine poco efficace a fronte delle forze profuse e dei capitali investiti.
Fatto che convinse i vertici del colosso automobilistico asiatico a ritirarsi nuovamente uscendo del tutto dalla BAR di cui deteneva il pacchetto di maggioranza. Ciò che rimaneva della squadra, compresi i progetti relativi alla nuova vettura, fu acquisito da Ross Brawn che, con un capolavoro tecnico, riuscì a vincere il titolo mondiale del 2009 con Jenson Button. Oltre alla coppa costruttori. La BGP 001 era motorizzata Mercedes e forse questo smacco convinse i dirigenti a riaccendere il fuoco della passione racing che non s’era mai realmente e del tutto sopito.
Honda/era ibrida: dall’umiliante debutto al successo
Da qui il nuovo programma F1 basato sulle power unit ibride. Una sfida epocale per un’azienda che era chiamata a recuperare un gap tecnico-temporale importante. E per rientrare in grande stile nella massima formula si decise di puntare su un connubio che aveva dato grandissime soddisfazioni, quello con la McLaren.
Il team di Woking, dopo anni di proficue collaborazioni con Mercedes, rimase orfano dei tedeschi ed era alla ricerca di un motorista ambizioso dopo una stagione 2014 chiusa al qurnto posto nei costruttori con una Mp4-29 progettata da Tim Goss ed equipaggiata dalla power unit ibrida che dominò il campionato con Lewis Hamilton e Nico Rosberg.
Stoccarda fece mancare il suo appoggio a Woking rivendendo ai vertici del team le quote di partecipazione che deteneva. Ron Dennis strinse l’accordo con i motoristi del Sol Levate che avevano preparato il ritorno in pompa magna.
Al volante il rientrante Fernando Alonso reduce da annate in chiaroscuro in Ferrari. Insomma, tutti gli ingredienti per metter su qualcosa di indimenticabile. Cosa che è accaduta, ma non di certo in positivo. Tre stagione, quelle 2015, 2016 e 2017, avare di soddisfazioni e piene di ritiri, penalizzazioni per sostituzioni di power unit e tensioni crescenti tra le parti che si accusavano reciprocamente per i fallimenti e le figure barbine fatte in giro per il mondo.
Si passava dai commenti ironici sul rumore del V6 ibrido assimilato a quello di un trattore alle parole poco lusinghiere di un non certo diplomatico Alonso che, in un ormai famoso team radio, si lamentava urlando stizzito “Questo è un motore da Gp2“. Un’umiliazione intollerabile per gli orgogliosi e risoluti nipponici che non esitarono a porre fine alla collaborazione con il team di Ron Dennis che, nel frattempo, pagò con la sua testa un accordo che, alla riprova della storia, ha fatto male ad entrambe le parti.
Honda: Red Bull e il ritorno alla vittoria
La stagione della svolta è quella 2018. La Red Bull era alle prese con un rapporto non più idilliaco con la Renault che, è bene ricordarlo, è stato il motorista che ha consentito al team anglo-austriaco di vincere quattro titoli costruttori consecutivi e altrettanti campionati piloti con Sebastian Vettel. Ma quando mancano le vittorie è facile che i legami possano modificarsi, incrinarsi e logorarsi in via irreversibile.
Ed è proprio quanto è accaduto tra la casa della Losanga e il team sapientemente diretto da Chris Horner. Che ha lavorato di sagacia. Infatti, con la collaborazione del fedele Helmut Marko e con il placet di Franz Tost e soprattutto del boss Dietrich Mateschitz, la scuderia di Milton Keynes ha imposto al suo team satellite, la Toro Rosso, di legarsi con la Honda abbandonando la Renault a fine 2017.
La stagione 2018 è stata un lungo allenamento tecnico tramite il quale Adrian Newey e la sua equipe incamerarono dati preziosi per lo sviluppo della RB15. Ma non solo. La stessa Honda potette portare una serie di novità impressionanti nella calendarizzazione ben sapendo che la STR non avrebbe mosso eccezioni. Il team faentino diretto da Tost accettò che le proprie vetture diventassero dei laboratori ambulanti.
Cosa compresa anche da Pierre Gasly e Brandon Hartley che hanno funto da vere e proprie cavie con una serie di arretramenti in griglia figli e frutto dei continui aggiornamenti portati dagli ingegneri di Tokyo. Un percorso doloroso ma che ha portato frutti che hanno raccolto in Red Bull. Innanzitutto sul versante affidabilità. Il V6 ibrido progettato dallo staff alle dipendenze di Toyoharu Tanabe migliorava sensibilmente in quello che era il suo tallone d’Achille, ossia l’attitudine ad un’endemica ed inaccettabile fragilità.
Honda: un know how che non può essere disperso
Quel che è successo tra il 2019 e il 2022 è storia nota e recente e raccontarla nel dettaglio sarebbe un esercizio superfluo. Basta sottolineare che il motore nipponico è cresciuto così tanto nelle performance e nella solidità da diventare il punto di riferimento della Formula 1 scalzando Mercedes dal trono delle propulsioni turbo-ibride. Honda, dunque, dopo un percorso tortuoso, faticoso e non privo di momenti imbarazzanti ha sbaragliato la concorrenza. La crescita inarrestabile, il congelamento regolamentare che perdurerà fino al 2025, le doti di progettazione tecnica di Adrian Newey (che è il professionista più geniale della F1 degli ultimi trent’anni e più) hanno creato un connubio irresistibile.
Le conoscenze accumulate in questi anni non possono essere così leggermente disperse. Honda è un costruttore appetibile e lo è non per quei team di fascia medio bassa che cercano un soluzione tampone, ma per chi intende primeggiare, magari rinverdendo i fasti di un passato che stenta a ritornare. Gli sguardi cadono su due realtà inglesi che in comune hanno la fornitura di V6 della Mercedes.
Brixworth offre i suoi motori a quattro scuderie e questo blocco di potere non è mai stato troppo gradito a Liberty Media Corporate che vorrebbe maggiore pluralità. Con l’ingresso di Audi e l’arrivo possibile di Andretti/Cadillac (che in prima battuta potrebbe ribrandizzare i motori Alpine, ndr) la proprietà americana vorrebbe una distribuzione più equa delle prolusioni. Mercedes-AMG High Performance Powetrains, dunque, potrebbe perdere uno dei suoi partner.
Williams aveva a lungo flirtato con Porsche tramite il rimosso Jost Capito. Non se n’è fatto nulla ma la cosa era esplicativa di una volotà che potrebbe essere tramontata visto che l’arrivo di James Vowles rinsalda l’asse Grove – Brackley – Brixworth. Ecco che l’altra opzione di abbandono riconduce a Woking, base operativa di McLaren F1. In nome di una stagione vincente, i due gruppi hanno preso a riannusarsi. Sì, perché il rapporto tra il costruttore inglese e quello nipponico non è solo quello fotografato delle vittorie con Ayrton Senna, è anche quello del mezzo disastro del ritorno in Formula 1 a metà anni Dieci.
Qualche scoria è rimasta ma si sta provando a superare le difficoltà per creare un asset tecnico (e perché no commerciale) che porta reciproci vantaggi. Per McLaren che potrebbe contare su un propulsore di primo livello e su un costruttore che lavora esclusivamente per il team, come avviene con Red Bull; per Honda che non dovrebbe chiudere un reparto powertrains che ha portato soddisfazioni, lustro e non poche ricadute tecniche sulle auto di produzione del colosso del Sol Levante.
Le condizioni logiche ci sono tutte, ora è tempo di concretizzarle. In questi mesi si capirà se vi sono le basi per un accordo da siglare con largo anticipo per arrivare al 2026 più pronti di quando Honda si presentò ai nastri di partenza della stagione 2015. E’ davvero il caso di dire che il futuro e oggi. E lo è ancor di più per due realtà ambiziose che vogliono riapporre il proprio marchio sulla Formula 1.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: Honda Racing, Scuderia Toro Rosso, Oracle Red Bull Racing, McLaren