giovedì, Novembre 14, 2024

Liberty Media: nuovi GP, ma il cuore della F1 resta europeo

In F1 sembra quasi che sia in corso una “guerra tra mondi”. Da un lato quello europeo, depositario della tradizione, dall’altro quello rappresentato da realtà che non hanno una grande storicità nella massima serie dell’automobilismo. Lo sport che amiamo e che raccontiamo si è evoluto in maniera massiccia soprattutto negli ultimi anni, da quando è passato dalle mani di Bernie Ecclestone a quelle di John C. Malone, n°1 di Liberty Media Corporate che ha impresso una forte accelerazione ad una mutazione culturale che già era iniziata tempo addietro. 

Proviamo a fare un salto nel passato di una trentina di anni. Con la nostra macchina del tempo impostiamo il datario al 1992, quando il calendario del mondiale di F1 era decisamente più snello essendo composto da sedici gare. Una, quella d’apertura, si disputava in Sudafrica. Tre si tenevano nel continente americano (Messico, Brasile e Canada), una in Asia (Giappone). Quella conclusiva si svolgeva in Australia. Per il resto si copeteva su palcoscenici europei.

Dieci appuntamenti che valevano il 62,5% della stagione. Dieci gare sono quelle che oggi si dipanano tra le nazioni del Vecchio Continente. La decina odierna, considerando che 23 sono i mattoni che edificano il calendario, ha un peso molto inferiore rispetto al passato visto che parliamo del 43% del totale.

La F1, dunque, ha mutato le sue caratteristiche geografiche spostando il proprio baricentro. Ma dove? Asia e Medioriente perlopiù. Una parabola che segue il riassetto dell’economia globale che prima degli anni ’90 era incardinata sul Nord America e sull’Europa, le aree su cui era allocata la maggior produzione industriale del globo.

F1
Il messicano Sergio Perez (Oracle Red Bull Racing), durante le prove GP di Miami 2022

Negli ultimi decenni del secolo scorso alcuni Paesi asiatici, grazie ad un progressivo sviluppo produttivo, hanno fatto da magnete, smuovendo il fulcro del capitalismo industriale verso est. Nazioni come Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong (poi assorbita dalla Cina), Malesia, Indonesia, Thailandia e Cina stessa sono divenuti poli d’attrazione per produzioni di massa, a costi contenuti e con specializzazione via via più grande.

Produrre su vasta scala vuol dire sostanzialmente una cosa: necessitare di energia. Di quantità abnormi di petrolio, gas ed elettricità. Ed ecco che entrano in gioco altre realtà. I grandi detentori di risorse: Arabia, Qatar, Emirati Arabi, Russia, gli stessi Stati Uniti. La lista è lunga e facilmente consultabile con una rapida ricerca su internet. Questo nuovo asse tra produttori-consumatori e fornitori ha determinato un riequilibrio geopolitico di proporzioni bibliche.

Una sorta di movimento tellurico che negli ultimi trent’anni ha sconquassato l’economia globale generando nuove realtà, abbattendone vecchie e creando inediti flussi di danaro che si muovono in aree un tempo meno floride. Le periferie dell’economia mondo capitalistica, per citare un brillantissimo osservatore come Immanuel Wallerstein, che diventano il perno al quale si incamicia il sistema.

Ecco che La F1 ha subito un riassetto geografico obbligatorio frutto della necessità di andare laddove vi siano realtà disposte ad investire in strutture ma anche in sponsorizzazioni salvifiche per l’intera categoria che negli anni addietro si reggeva sulle entrate dei grandi tabaccai che via via, a causa di leggi stringenti, hanno fatto mancare il loro apporto economico.

L’Europa non poteva dunque più essere il pivot intorno al quale la categoria girava. Questo processo di delocalizzazione potrebbe addirittura non essere terminato perché altre realtà bussano alle porte di Liberty Media per entrare a far parte del grande affare che è la Formula Uno.

La classe regina dell’automobilismo sportivo ha spostato il suo asse per interessi geostrategici. L’Arabia Saudita, con i suoi petrodollari, sta diventando un polo d’attrazione a cui Liberty Media non può né sa resistere. E qua entriamo in una questione più ampia che valica la sfera economica ed entra a gamba tesa in ambiti politici, giuridici e sociali. Inutile girarci intorno: il Paese di re Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd non spicca per la tutela dei diritti umani.

Poli opposti, F1 e tutela di certe libertà, che devono necessariamente coesistere per consentire il normale svolgersi della vita della categoria che è una divoratrice di danaro senza eguali. Ecco che certe “storture” vengono scientemente ignorate per consentire alla serie di fagocitare fondi e risorse la cui provenienza non ha più peso. Pecunia non olet. Dopo tre decenni di profondi cambiamenti, tra cui globalizzazione e digitalizzazione, lo sport non è più da ritenersi una semplice questione di competizione tra soggetti, che siano piloti o scuderie.

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Saudi Aramco, uno degli sponsor più importanti della F1

F1: un cambio di paradigma culturale che annulla davvero l’Europa?

la F1 deve mutare nei suoi archetipi per rispondere a mutate esigenze strategiche. Oggi il meccanismo va alimentato e foraggiato a suon di dollari ed è là che il mercato si sta spostando. Ed è il motivo per il quale, oltre ai Paesi arabi succitati, oggi gli Stati Uniti sono un grande protagonista, avendo tre gare in calendario e pensando addirittura di portare a quattro il numero totale. 

Paesi come Germania e Francia, che in Europa e anche a livello mondiale sono delle vere e proprie locomotive economiche, hanno dovuto dire addio alle rispettive gare con un eventuale reingresso in calendario che può realizzarsi soltanto se viene garantita la sostenibilità economica dell’operazione, fattore che al momento sembra non poter essere garantito. Diverso è il discorso per realtà come gli Stati Uniti nei quali i promoter non faticano ad aprire i cordoni della borsa e ricoprire di oro Liberty Media che vende il proprio prodotto a prezzi sempre più elevati.

Gli USA, quindi, possono contare su più fondi da investire, ma anche su una differenza culturale rispetto alla fan base europea. Questo è il parere di Stefano Domenicali che ritiene che il processo di spostamento sia inevitabile. Ma la ragione non verte su questioni fiscali, ma anche sulla natura dei tifosi che bisogna soddisfare.

È abbastanza chiaro che ogni popolo, non solo in America, ha una personalità diversa, un approccio culturale particolare, una diversa segmentazione di fan. A volte dimentichiamo che solo un paio di anni fa pensavamo: <<Abbiamo davvero bisogno di rimanere negli Stati Uniti? È davvero il mercato in cui dovremmo trovarci?>>. E’ grazie alla testardaggine che siamo qui. Abbiamo avuto due gare l’anno scorso, e quest’anno ne stiamo aggiungendo un’altra, quindi in un batter d’occhio, ci stiamo arrivando. Non vedo alcun tipo di cannibalizzazione, ognuno è diverso, tutto è diverso. Non vedo alcun problema lì“.

F1
Stefano Domenicali, presidente e amministratore delegato del Formula One Group

Quando Domenicali parla di cannibalizzazione si riferisce proprio a quel progetto di cui abbiamo parlato in precedenza, quella sorta di “sostituzione culturale” che vede l’Europa soccombere in favore degli Stati Uniti. Secondo il manager imolese, però, non è questa la corretta chiave di lettura. Da qui si è giunti all’allargamento del calendario.

Se riflettiamo, infatti, dieci erano gli appuntamenti europei trent’anni fa, dieci sono oggi. Ad essersi dilatato è il calendario. Cosa non avvenuta a scapito dell’Europa. Il discorso è chiaro: la Formula Uno si è semplicemente modificata geneticamente nel corso degli anni e lo ha fatto per intercettare una domanda che è andata aumentare in ogni parte del mondo. Spesso leggiamo, soprattutto dai tifosi più integralisti, che la vera F1 è quella che presentava calendari a 16 – 18 appuntamenti.

Probabilmente, se si ritornasse a quel numero, l’Europa allora sì che dovrebbe soccombere nei confronti delle altre realtà che spingono per accedere al banchetto delle feste. Ad oggi il Vecchio Continente, nonostante la diluizione delle gare, mantiene la sua forza originaria anche se la percezione è diversa.


Autore: Diego Catalano – @diegocat1977

Foto: F1
, Miami Circuit, Aston Martin

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