Chissà se Frédéric Vasseur, ripensando all’offerta ricevuta dalla Ferrari, si sia mai pentito nell’accettare il “vespaio maranelliano” invece di proseguire nella placida quiete di Hinwil. Quella che doveva essere la stagione del riscatto si è tramutata in un’annata da incubo. Nell’era turbo-ibrida, difatti, dopo tre gran premi, il Cavallino Rampante non aveva mai raccolto così pochi punti. Un bottino ancor più magro di quello raggranellato dalla vettura 2020, condizionata dal power unit gate, che non abbiamo timore a definire in un cancello con le ruote. E perdonateci per l’espressione irriverente.
Ferrari: una lunga storia di teste mozzate
Nella storica scuderia italiana essere a capo della Gestione Sportiva non è mai un compito semplice. Anche perché non si ha quasi mai vita lunga. Senza fare tediose liste di nomi, basta sottolineare che dalla data di fondazione del glorioso team italiano, nel 1929, sono stati ben 27 i capi della GES. Da quando invece è nato il mondiale di Formula Uno – posizioniamo le lancette al 1950 – Maranello ha visto avvicendarsi, da Federico Giberti al dimissionario Mattia Binotto, 23 capi. 24 se consideriamo che nel 1976 la direzione fu bicefala, affidata a Guido Rosani e Daniele Audetto. 25 con Vasseur.
Praticamente, facendo un calcolo elementare, in Ferrari un team principal resta in sella mediamente poco meno di quattro anni e mezzo. Un tempo troppo breve, specie nella F1 attuale, per poter gettare le basi per costruire il castello del successo. Ed infatti, a confermare che uno dei più seri problemi di gestione della Rossa sia la spiccata tendenza a mozzare teste, è il dato relativo all’era Jean Todt.
Per contrasto, quindi, è facilmente dimostrabile che la longevità paga. Non può essere una fatalità il fatto che il dirigente francese abbia preso possesso dei suoi uffici il primo luglio del 1993 per abbandonarli il 12 dicembre del 2007, scrivendo un’avvincente storia di successi mai vista prima e mai più replicata dopo.
Quattordici anni. Un lasso temporale totalmente inedito dalle parti di Modena e che ha portato a sei titoli piloti (cinque con Michael Schumacher e uno con Kimi Raikkonen, ndr) e sei Costruttori. Roba da record visto che parliamo, riferendoci al periodo 1999-2004, della seconda striscia di trionfi consecutivi nella storia della categoria dopo quella probabilmente irripetibile della Mercedes.
Ferrari, dunque, avrebbe nella sua stessa storia il fulgido esempio di come operare per costruire. Ed invece rifugge da quel meccanismo così efficace. Perché? La domanda non ha una risposta completa, siamo spiacenti. Probabilmente, volendo far congetture, la GES è troppo esposta alle “lune” della proprietà che negli ultimi anni vive una vera e propria ansia da prestazione. Si costruisce e si decostruisce troppo rapidamente, credendo fallacemente che il cambiamento sia sinonimo di miglioramento. Così non è.
Lo dice l’esperienza della Rossa, lo raccontano i paradigmi operativi dei competitor più accreditati. Red Bull e Mercedes, per citarne due che qualcosina negli ultimi quindici anni hanno vinto (praticamente tutto) hanno fondato il loro agire su una ferrea continuità manageriale. E la proprietà ha fatto blocco e quadrato soprattutto nei giorni difficili. In Ferrari, invece, si percepisce unità d’intenti solo quando – e se – si trionfa. Non appena si entra in fasi difficili gli scricchiolii diventano assordanti rumori di case che cadono sotto l’impulso di un terremoto.
Quello che non avvenne nell’epopea Todt. Quando il dirigente prese le redini della realtà italiana si faceva prima a contare ciò che andava buttato che quello che poteva essere salvato. Luca Cordero di Montezemolo e Gianni Agnelli seppero fare diversi passi di lato lasciando la scena alla sagacia organizzativa del piccolo uomo transalpino (solo di statura) che venne per erigere un’intelaiatura che da lì a un lustro cominciò ad offrire frutti dolcissimi che a Maranello non si sono più gustati. Ecco, basterebbe questo semplice monito per comprendere che la parola chiave per salire i gradini della gloria è stabilità.
Ferrari: la ricetta di Luca Cordero di Montezemolo
Proprio il summenzionato Montezemolo, uno dei principali artefici di quella straordinaria stagione di trionfi, si è espresso sull’attuale momento che si vive in Ferrari dicendo la sua e provando a dare qualche consiglio. L’ex numero uno delle cose rosse non ha lesinato realismo quando ha detto che servirà del tempo per uscire da una crisi complessa perché radicata nei meandri più reconditi del team:
“Non credo sia una crisi a breve termine, si tratta di ricostruire e bisogna mettere insieme i migliori tecnici”, ha spiegato il manager a La7. “Presi Todt, Domenicali, Brawn e Byrne. Schumacher arrivò due anni dopo. La crisi era nerissima, ma venne costruita una squadra. Anche andando a recuperare sul mercato alcuni tecnici di diverse nazionalità. Bisognerebbe anche ora portare cultura in azienda nei settori dove c’è necessità”.
Parole che riconducono ad un’altra difficoltà che la Ferrari ha incontrato negli ultimi anni: attirare tecnici provenienti dalla “Silicon Valley” della Formula Uno, laddove la stragrande maggioranza dei team ha impiantato le sedi operative che hanno fatto sviluppare un florido mercato di competenze e un indotto tecnico di primissimo livello.
È come se la Ferrari fosse troppo lontana da questa realtà. Situazione che scoraggia i tecnici che operano in quella zona e che, in fondo, non trovano attraente un team che spesso si mostra, all’esterno, come troppo confusionario e incapace di produrre vittorie. Ciò che in pratica non era nei tre lustri della guida a Todt, quando fu messa su una squadra talmente solida che seppe ammaliare i professionisti più preparati dell’epoca che venivano, appunto, dalla scuola britannica.
Montezemolo, in chiusura del suo ragionamento, bacchetta anche chi si è reso protagonista di quegli slanci in avanti un po’ troppo arditi prodotti quando la Ferrari SF-23 si mostrava al pubblico. “Ho trovato sbagliati i discorsi trionfalistici nella presentazione, mi aspettavo una vettura evoluzione dello scorso anno”. Effettivamente quelle parole erano risuonate fuori contesto. E lo sono ancora di più adesso quando sono state duramente bocciate dalla storia.
La cosa più paradossale è che, dopo quelle esternazioni, l’Amministratore Delegato della Ferrari, Benedetto Vigna, non è mai più tornato a parlare di Formula Uno. Come se si volesse rimuovere la sofferenza di un ambito di vitale importanza per la scuderia: quello sportivo. Un comparto aziendale che va necessariamente puntellato perché è la prima vetrina per un mercato delle vendite che comunque sta funzionando bene. E forse è proprio questo uno dei problemi principali che spiega il digiuno…
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: F1, Scuderia Ferrari