Team principal. Un’espressione ormai d’uso comune in F1 (e anche nell’italianissima Ferrari) che, sintetizzando all’estremo, sta ad indicare l’uomo che guida una scuderia. Il timoniere che governa il vascello e lo fa sia in acque placide che nei venti tempestosi che trasformano il mare in un inferno. La persona che organizza lo schema operativo della franchigia, gestisce gli uomini, coordina reparti disparati, definisce la linea comunicativa e stabilisce finanche le gerarchie tra i piloti.
Un direttore d’orchestra con orecchio fine, pronto ad ascoltare ogni minima dissonanza proveniente dall’ensemble per registrare i toni e fare in modo che l’opera fluisca armonica. E possibilmente vincente. O quanto meno aderente ai target stabiliti dalla proprietà. Un ruolo che a Maranello è spesso nell’occhio del ciclone e che non ha durata troppo lunga
Sì, perché, in definitiva, un “TP” non è quasi mai un proprietario di scuderia. Almeno oggi, epoca caratterizzata da iperspecializzazione e da scientifica divisione del lavoro e dei compiti. Un tempo le figure spesso coincidevano, ma parliamo di una Formula Uno più romantica e meno aziendalmente strutturata. Ma non per questo meno affascinante e competitiva. Anzi.
Ferrari: una storia fatta da continui avvicendamenti
In Ferrari essere a capo della Gestione Sportiva non è mai un compito semplice. E soprattutto non si ha quasi mai vita lunga. Senza fare tediose liste di nomi, basta sottolineare che dalla data di fondazione del Cavallino Rampante, nel 1929, sono stati ben 28 i capi della GES. Da quando invece è nato il mondiale di Formula Uno – posizioniamo le lancette al 1950 – Maranello ha visto avvicendarsi, da Federico Giberti al dimissionario Mattia Binotto, 24 capi. 25 se consideriamo che nel 1976 la direzione fu bicefala, affidata a Guido Rosani e Daniele Audetto.
Praticamente, facendo un calcolo elementare, nella Scuderia un team principal resta in sella mediamente poco meno di quattro anni e mezzo. Un tempo troppo breve, specie nella F1 attuale, per poter gettare le basi per costruire il castello del successo. Ed infatti, a confermare che uno dei più seri problemi di gestione della Ferrari è la spiccata tendenza a mozzare teste, è il dato relativo all’era Jean Todt.
Per contrasto è facilmente dimostrabile che la longevità paga. Non può essere una fatalità il fatto che il dirigente francese abbia preso possesso dei suoi uffici il primo luglio del 1993 per abbandonarli il 12 dicembre 2007 aprendo ad una stagione di successi mai vista prima e mai più replicata dopo.
Sottolineiamo con estrema lucidità che, dal giorno del commiato di Todt, la GES è stata affidata a quattro manager: Stefano Domenicali (il più longevo), Marco Mattiacci (una meteora durata un amene di cui nessuno ha più memoria), Maurizio Arrivabene e, appunto, Mattia Binotto che il 31 dell’anno passato è volato per altri, misteriosi, lidi. Un poker di uomini in quindici anni. La Ferrari che torna in quella media di cui sopra che ha portato titoli ma mai continuità di vittorie. Cosa che abbiamo riscontrato solo sotto il governo di re Jean da Pierrefort.
Ferrari: l’instabilità gestionale è il difetto da superare
L’instabilità, dunque, è il grande male che affligge la Rossa. Di quest’idea è Jacques Villeneuve che, nel suo stile diretto e senza filtri, ha detto la sua sulle difficoltà di una scuderia che anche nel 2023 sarà spettatrice in una tenzone alla quale non può partecipare: la lotta per il titolo del mondo.
“Non guardate solo a quest’anno – ha esordito il campione del mondo 1997 – Quando continui a cambiare direzione come fanno loro non hai mai una base su cui lavorare. E vediamo che tutti passano allo scaricabarile: non è mai colpa di nessuno. Non c’è un processo decisionale e questa instabilità sta costando cara alla Ferrari”.
Negli ultimi dieci anni – ha proseguito l’ex Williams – hanno scelto di tornare alle loro radici ed essere una squadra italiana. Ma la cosa non sembra funzionare. Nel processo, il team ha perso bravi tecnici e ricostruire tutto questo richiede molto tempo“.
Il giudizio del canadese non è mortificante né degradante, somiglia piuttosto ad una lucida fotografia di certe dinamiche che si reiterano nel tempo. Non bisogna negare che Maranello deve imparare ad essere più stabile nella politica governativa. I ribaltoni possono offrire benefici di breve periodo, ma alla distanza prestano il fianco all’indeterminatezza e alla perdita di punti di riferimento.
John Elkann, Benedetto Vigna hanno puntato convintamente su Frédéric Vasseur. I primi due sappiano dare al terzo il necessario supporto anche nei momenti in cui il natante è fermo nella bonaccia. Perché è quel tipo di fiducia e di sostegno che alla lunga crea quel substrato sul quale erigere solidi pilastri. Fu così nei primi anni del governo Todt: dal supporto incondizionato nacque la più entusiasmante epopea rossa. La presenza di John Elkann nel box austriaco può essere un buon segnale in tal senso.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: F1, Scuderia Ferrari