venerdì, Novembre 22, 2024

Ferrari e l’uscita dal tunnel

Il casco indossato anche in Ferrari l’ho sempre trovato di rara bellezza. Semplice, con la bandiera austriaca stilizzata ai “lati” e con quel bel blu scuro tendente al nero. Sarò certamente tacciato di essere un “passatista”, un boomer o qualche altro orribile termine mutuato dall’inglese, ma non c’è paragone con i caschi di un tempo, che accompagnavano i piloti per tutta la loro carriera come la carta d’identità, che avevano pochi colori ed erano quindi facilmente riconoscibili, e quelli dei piloti di oggi.

La moda probabilmente fu inaugurata da Sebastian Vettel in Red Bull. Poi, come sempre accade, l’imitazione diventa eccesso. E mentre il Seb ferrarista tirava fuori un casco da “ritorno all’ordine”, dall’impeccabile e iconica livrea bianca, gli altri hanno continuato a incasinarli sempre di più. I caschi dei piloti di oggi sono senz’anima, loro stessi cambiano spesso le livree (talvolta totalmente) da un gran premio all’altro. Ogni casco diventa “celebrativo” e i piloti, nella loro ansia bulimica di buttarci addosso di tutto (a partire dai munifici sponsor ovviamente), li fanno diventare insipidi e irriconoscibili.

Faranno, ne sono sicuro, la gioia delle aziende produttrici di gadget e collezioni assortite, saranno un po’ meno contente le tasche degli appassionati e il buon gusto. Scusate la parentesi. Il pilota l’ho amato. Esordisce nel 1984, grazie ai consigli e al supporto di un certo Helmut Marko, e si ritira nel 1997. 210 gran premi corsi, 10 vinti, 48 podi, 12 pole position, 21 giri veloci. La prima e l’ultima gara della sua carriera vinte, curiosa coincidenza, con una Benetton.

Due assonanze con un altro austriaco illustre, Niki Lauda. La famiglia che non lo finanzia per la sua avventura in F1 e il fuoco. Pilota di sostanza, concreto e veloce che forse, ad un certo punto, capì di non essere un numero uno e si accontentò di fare lo scudiero di Senna (dal 1990 al 1992) con generoso contratto. Ma se la fortuna gli avesse dato una monoposto da mondiale senza un compagno ingombrante come Ayrton (inevitabilmente votato ad essere il numero uno) non sarebbe stato uno scandalo se si fosse laureato campione del mondo.

La sua carriera agonistica non è mai stata banale. Parlavamo del fuoco che lo accomuna a Niki. Nel 1989 il terribile incidente della avveniristica Ferrari di Barnard (la “papera” dotata del rivoluzionario cambio semiautomatico al volante), a Imola. Cominciato da poco il quarto giro la sua monoposto, a 280 chilometri all’ora, perde l’alettone anteriore (cedimento strutturale). Il veicolo, senza alcun controllo, va a sbattere al Tamburello e prende quasi subito fuoco dopo il violento scontro con le barriere.

Ferrari
Gerhard Berger a bordo della sua Ferrari 640 sotto le fiamme – Gp Imola 1989

La 640 (nome del progetto) di Barnard aveva i serbatoi non solo dietro il pilota ma anche ai lati (il progettista voleva che la distribuzione dei pesi fosse ottimale). Era il primo anno del ritorno ai motori aspirati dopo oltre un decennio di motori turbo (dalla fine degli anni settanta al 1988). Grazie alla bravura dei soccorritori (i mitici leoni della squadra antincendio della CEA), che intervennero in appena 20 secondi, Berger se la cavò con leggere ustioni a braccia e mani e una costola incrinata (per l’impatto). Le immagini ancora oggi mettono i brividi.

Dopo qualche settimana era di nuovo pronto a correre, come se nulla fosse. Noi ferraristi lo amiamo perché per ben tre volte rappresentò l’uscita dal tunnel, l’inizio di una lenta risalita e la rottura, in due casi, di lunghi periodi di digiuno assoluti. La prima volta, nel 1987, ultime due gare del mondiale, Giappone e Australia. Interrompe un digiuno di vittorie che durava dal gran premio di Germania del 1985 (Nurburgring, Michele Alboreto).


Ferrari: Berger e la luce in fondo al tunnel

Sembra l’inizio di una possibile vittoria mondiale per l’anno dopo. C’è la rivoluzione dell’aspirato fra due anni. Nel 1988 si può ancora correre con il motore bi-turbo 1.5 litri con una valvola pop-off che ne limita la potenza massima, oppure correre già con il motore aspirato da 3500 centimetri cubici. Ferrari sceglie di mantenere la buona F1-87 (ribattezzata F1-88C), snellendola e in parallelo di sviluppare la monoposto e il motore aspirato (figurati se oggi fosse possibile una scelta del genere con il tetto alle spese).

Scelta azzeccata almeno in teoria. Se non fosse che la McLaren tira fuori dal cilindro la monoposto cannibale per il canto del cigno della prima era turbo, la Mp4/4 motorizzata Honda. Per sovrappiù guidata dal bicampione del mondo Prost assieme a Senna, al suo primo anno in McLaren. Quella monoposto mostruosa, guidata da due piloti mostruosi, vince 15 gran premi su 16. Agli altri restano le briciole.

A Monza, domenica 11 settembre, a poco meno di un mese dalla morte di Enzo Ferrari, la rossa coglie una rocambolesca e incredibile vittoria. Addirittura doppietta. Prost si ritira al 35esimo giro per problemi al motore. E Senna, ormai avviato ad una comoda vittoria, a due giri dalla fine entra in collisone con il santo (per noi ferraristi santo sempre) JeanLouis Schlesser, che tra l’altro era pure doppiato. Senna si ritira. Berger precede Alboreto in un tripudio di bandiere rosse per un trionfo assolutamente insperato e incredibile.

Ferrari
Gerhard Berger a bordo della sua Ferrari 412T1B vince il Gran Premio di Germania edizione 1994

La terza volta addirittura la Ferrari non vince una gara dal 1990. Nel 1993 arriva Todt sotto l’ala protettiva di Montezemolo (a sua volta diventato presidente Ferrari dal 1991). Il team è totalmente da rifondare. Berger (il compagno era Jean Alesi) vince, dopo quasi 4 anni di vuoto, sempre in Germania nel 1994 (ma all’Hockenheimring). In Ferrari, nella prima e seconda “vita”, c’è stato la bellezza di 6 anni. Dal 1987 al 1989 e poi dal 1993 al 1995.

C’è un’altra parte della vita di Gerhard che sarebbe bello raccontare o approfondire. I perfidi scherzi che fece (e subì per evidente rappresaglia) a Senna (cui lo legò profonda e ricambiata amicizia) e Alesi. E a tanti altri. Uno dei più memorabili ha a che fare con la Y10 di monsieur Jean Todt. Probabilmente ne scriveremo. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.


Autore: Mariano Froldi – @MarianoFroldi

Immagini: Scuderia Ferrari McLaren

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