Pausa estiva, tempo di compendi. Dodici gare alle spalle, dieci aavanti per arrivare alla chiusura di un campionato del mondo che ha un solo visibilissimo padrone: Max Verstappen e il suo destriero, la Red Bull RB19. L’olandese ha maciullato la concorrenza, a partire dal compagno di squadra, con dieci vittorie totali. Due quelle di Perez che vanno a sancire l’egemonia di Milton Keynes che ha letteralmente “piallato” Mercedes, Ferrari, Aston Martin e tutti gli altri team che si affannano nella lotta a definirsi il primo degli sconfitti.
Qualcuno ha paragonato questa supremazia a quella che Mercedes, nel triennio 2014-2016, imponeva alla F1. Senza addentrarci in numeri e statistiche basta vedere che all’epoca, anche in presenza di una vettura ingiocabile per la concorrenza, c’era almeno sfida vera tra Lewis Hamilton e Nico Rosberg, tanto che l’assegnazione dei campionati si protrasse fino alle battute finali. Da due anni a questa parte, complice il castello normativo messo in piedi dal legislatore della Formula 1 e il particolare schema adoperato dalla Red Bull, chi comanda lo fa in solitaria e senza dare speranza a chi insegue.
“Non so se il nostro dominio fosse simile o meno. Penso che ci siano stati anni in cui abbiamo fatto lo stesso, ma almeno avevamo due macchine che lottavano tra loro. Questo ha creato divertimento per tutti. Non è questo il caso al momento“. Così si è espresso Toto Wolff parlando di quanto sta accadendo negli ultimi tempi.
Non si commettono errori se si afferma che il dominio Mercedes è stato più entusiasmante. I campionati 2014, 2015 e 2016 sono infatti stati equilibrati anche se le vetture anglotedesche manifestavano una superiorità schiacciante rispetto alla concorrenza stranita dalle nuove regole motoristiche. Red Bull, invece, non permette che possa esservi un equilibrio intra-aziendale, per due ordini di ragioni.
La prima riporta a motivi tecnici e lo hanno sancito l’anno scorso Paul Monaghan e Pierre Waché quando hanno affermato che la macchina era andata nella direzione di sviluppo più confortevole per Max Verstappen. La RB18, pesante e tendente al sottosterzo, non si cuciva addosso all’olandese. Perez sembrava gradirla di più, ma ogni sviluppo diede certezze al campione del mondo togliendone al messicano. A metà stagione la vettura divenne una lama affilata nelle mani di Max che prese il largo in maniera inesorabile.
La seconda per soddisfare uno schema organizzativo tipico della Red Bull. Avendo capito, in seno al team, che hanno tra le mani un cavallo di razza sul quale puntare, gli hanno piazzato accanto un pilota che non è messo nelle condizioni di poter dare il meglio di sé. Perez è sul “knife edge” per usare un’espressione tipica inglese e sa che non ha intatte possibilità di poter battere il proprio compagno di squadra.
Lo stesso fatto che abbiano promosso un uomo come Daniel Ricciardo nel team B della scuderia di Milton Keynes è una Spada di Damocle che pende sulla testa del messicano. Che non ha margini di manovra. Dopo Monaco 2022 il pilota di Guadalajara è stato incatenato, quasi non gli viene più consentito di alzare il capo.
Nel corso di questa stagione, dopo che Sergio ha tenuto testa a Max nelle prime quattro gare, è arrivata una resa quasi totale frutto di una crisi psicologica prima che tecnica. Il feeling con la RB19 sì è smarrito di colpo e la il fatto è accaduto per un disagio strisciante che è stato alimentato anche dai vertici della scuderia che non hanno fatto chissà cosa per sostenere il messicano.
La sensazione è che Perez debba limitarsi a fare il compitino, ad aiutare a raggranellare i punti per ottenere il Costruttori senza infastidire il suo caposquadra, se mai abbia la possibilità di farlo. Questo è quello che succede all’interno del team e che spiega, senza pretese d’avere il calice della verità in mano, come funziona un attacco a una punta.
Red Bull dominante grazie agli assist di FIA e Liberty Media?
Ma ci sono anche ragioni esogene che spiegano come mai la Red Bull non abbia avversari credibili. Attiviamo la macchina del tempo e facciamo qualche passo indietro. I vertici della F1, per provare a livellare i valori tecnici, hanno introdotto un sistema di pesi e contrappesi regolamentari che non ha perfettamente funzionato. Almeno finora.
Il cost cap (pilastro 1) è stato deliberato nel 2021 insieme al balance of performance tecnico (pilastro 2) a cui si è aggiunta poi la rivoluzione regolamentare tecnica (pilastro 3) dell’anno scorso. Elementi che hanno generato una sola, visibile, modifica: cambiare il soggetto dominante ma non la dinamica che conduce al dominio.
Lo schema a tre colonne ha presentato un effetto collaterale molto evidente: bloccare i tentativi di rimonta degli avversari. Anche chi ha più ore di sviluppo garantite dall’Aerodynamic Test Regulation deve far fronte ad un’evidenza: cozzare con la mancanza di fondi determinata dal tetto di spesa. Ecco che chi ha lavorato meglio, come Red Bull, resta protetto sotto una campana di vetro regolamentare che mortifica gli altrui sforzi.
Congelamento regolamentare power unit: una vittoria politica per Red Bull
Ma c’è un altro elemento che “protegge” il vantaggio del team e di cui, forse, si parla poco: il congelamento normativo delle power unit. Questa è una delle più grandi vittorie politiche ottenute da Chris Horner negli anni scorsi. Riavvolgiamo ancora una volta il nastro. Quando Honda, con un atto unilaterale e inaspettato, decise di ritirarsi dalla Formula Uno, Red Bull rimase spiazzata.
Ma non fu il solo soggetto ad essere colto di sorpresa. Anche gli organi di vertice del motorsport lo furono. Con un costruttore in disimpegno e non intenzionato ad investire ulteriormente (politica poi rivista, sappiamo come sono andate le cose), la Formula Uno rischiava di rimanere soltanto con tre motoristi attivi, ossia Renault, Ferrari e Mercedes, e uno che si trascinava stancamente fino al momento dell’addio.
È stato in quella fase che le parti, compresi i produttori di PU, hanno deciso di lucchettare il quadro tecnico di riferimento per riaprirlo nel 2026, quando si concretizzerà una rivoluzione resasi necessaria per favorire l’ingresso di altri soggetti, a partire da Audi. È proprio questa nuova politica che ha riattivato le attenzioni del colosso giapponese, che negli ultimi tempi si è legato con Aston Martin.
La mossa di congelare le power unit in pratica è servita a livellare i valori evitando che i soggetti che volevano e potevano ancora investire, quindi Mercedes, Alpine e Ferrari, potessero aprire un solco clamorosamente grande nei confronti di chi si era fermato in attesa del ritiro formale.
Per rispondere a questa necessità, ancora, Red Bull aveva iniziato a mettere in piedi il proprio reparto powetrains. Il blocco normativo serviva anche per dare tempo al gruppo di Milton Keynes di creare una struttura efficiente e in grado di competere con i colossi dell’automotive. Peccato che questo stop sia arrivato nel momento in cui il motore Honda era diventato il benchmark della Formula Uno. In soldoni, si è fermato lo sviluppo quando un propulsore, quello giapponese, era diventato il più efficace dell’intera categoria. Cosa, e qui il paradosso, che determina una posizione di vantaggio garantita fino al 2026.
Il regolamento tecnico della Formula Uno sulla materia non prevede che si possano fare upgrade dei motori. Modifiche in un meccanismo piuttosto complesso e cervellotico sono contemplate solo nel momento in cui si verificano effettive ragioni di affidabilità. In questi giorni la F1 Commission ha affrontato la richiesta di Alpine di poter modificare la portata del flusso di carburante del proprio V6 turbo-ibrido per ridurre il gap di potenza nei confronti degli altri costruttori. La proposta è stata bocciata proprio perché andava ad infrangere il principio del regolamento secondo cui non si possono alterare le cose tecniche per migliorare il cuore pulsante delle F1.
Chiaramente, e va immediatamente fugato ogni tipo di sospetto, le decisioni di cui parliamo non sono state prese con l’intento deliberato di favorire un team a scapito degli altri, tant’è che c’è stato l’avallo di tutti i soggetti coinvolti. La Formula Uno ha capito soltanto con il consolidarsi della prassi che le mosse fatte negli anni precedenti hanno creato il contesto ideale nel quale una realtà abile e preparata come Red Bull si è incuneato per ottenere un vantaggio conclamato e che difficilmente si eroderà da qua al nuovo percorso regolamentare che sarà instaurato nel 2026.
Se a questo uniamo anche la blanda pena comminata al team austriaco per lo sforamento del budget cap che sostanzialmente non ha spostato gli equilibri, ecco che non si sono creati gli elementi per scalfire l’imperio che osserviamo. Non è un caso che Stefano Domenicali, recentemente, parlando delle revisioni finanziarie in corso da parte della Federazione Internazionale, ha auspicato che, in caso di ulteriori infrazioni, le pene ricadano nell’ambito sportivo (decurtazione di punti e vittorie?) e che siano tecnicamente più afflittive.
“Che dite faccio un pit stop training? Giusto per tenerci allenati”. Questo il team radio irriverente di Max Verstappen al giro n°36 del Gp del Belgio. Perché citiamo questo passaggio apparentemente decontestualizzato? Semplice, poiché è utile a descrivere la portata del vantaggio che la Red Bull in questo momento ha sugli avversari.
E se può succedere che un pilota partito sesto, dopo 36 passaggi, abbia un vantaggio tale da potersi fermare in comodità, montare gomme nuove e magari prendersi il giro veloce è perché tutte le decisioni prese negli anni precedenti, da quella di istituzionalizzare il budget cap a quelle di introdurre il meccanismo ATR passando per il congelamento degli sviluppi PU, hanno creato quell’humus nel quale è potuta germogliare l’egemonia della Red Bull. Ecco perché, in chiave 2026, si sta correndo ai ripari con un regolamento che dovrebbe essere più bilanciato e soprattutto meno incatenante.
Autore: Diego Catalano – @diegocat1977
Foto: F1, Oracle Red Bull Racing, Mercedes AMG F1
Ottimo articolo, complimenti per la sua visione